martedì 30 marzo 2021

Racconto: La grande farsa della corsa estiva

Il racconto che pubblico in questa giornata, La grande farsa della corsa estiva, lo trovate anche in un altro post sul mio blog (vi basta digitare il titolo nel form di ricerca) che vi linka il formato PDF. Ho visto tuttavia che non è stato scaricato molte volte, perciò ho deciso di pubblicarlo direttamente sulla mia piattaforma. Dieci minuti di tempo, più o meno. Una divertente lettura politicamente scorretta. 

 

La grande gara con le auto da corsa avrebbe preso il via alle due di notte del sette agosto. Si sarebbe svolta, alla luce delle candele, sull’autopista polystil allestita nella camera da letto dei bambini. 

I piloti, in teoria, avrebbero dovuto percorrere venti giri del circuito: il tutto senza interruzioni e soste ai box, anche perché durante la manifestazione sarebbe mancato un servizio d’ordine in grado di appagare le necessità dei partecipanti. 

Questo pareva essere quanto avesse istituito la commissione organizzatrice dell’evento, ed era ciò che appariva scritto in grassetto sulle locandine disseminate tra i vari locali della villetta. 

In realtà, si trattava solo di una farsa solenne destinata a stabilire quale giocattolo sarebbe potuto uscire, la sera successiva, a mangiare una pizza in compagnia di Barbie la stangona bionda. 

Ora, siccome la Barbie era sciccosissima, avvenente e profumata come un prato di gigli primaverili, un bel po’ di balocchi in scala vollero accaparrarsi un sedile al posto di guida. 

Questo particolare, però, provocò un grosso equivoco, perché le macchine da gettare in pista erano solo due: una Chapparal bianca rimasta parcheggiata sino a quell’istante all’ombra dei pini ponderosa dello Zion National Park e una Ferrari Vallelunga rossa. 

In poche parole non esisteva la possibilità per affidare una guida a tutti e dunque, dopo l’annuncio della sfida – assai prima delle due di notte e dell’accensione dei lumi – scoppiò una sorta di guerra civile che mise a soqquadro l’ordine esistente tra i vari soldatini e gli altri giocattoli dei bimbi. 

Non tutti ci presero parte, logicamente. 

Coloro che avvertivano qualche ambiguità dal punto di vista sessuale, e coloro la cui costruzione li aveva dotati di una struttura scomoda e non idonea a occupare un sedile sportivo non presero posizione; ma per tutti gli altri la partecipazione ai combattimenti fu più di un semplice obbligo morale e civico. 

Ne uscì una battaglia grottesca. 

Plotoni di truppe da sbarco San Marco contro Geronimo e i suoi Chiricahua a cavallo; rivoluzionari Russi e Maoisti alle prese con i crucchi dell’Africankorps; e poi carri armati Matilde, obici semoventi, B29, Luke Skywalker, la sagoma di Ronaldo con la maglia del Barcellona, una miniatura dell’Apollo Sette e dulcis in fundo Big Jim nella parte di un gigante tonto che trascinava al guinzaglio un dinosauro carnivoro in plastica grigio preso a prestito da un racconto di Conan Doyle. 

Adesso quando un gigante tonto scende sulla pista da ballo, per di più supportato da un Tyrannosaurus Rex mezzo sperticato e con la bocca spalancata come una ruspa, sono davvero problemi seri – e i problemi seri furono ciò che si sorbirono nelle ore successive tutti i combattenti. 

In un primo momento, appena i vari giocattoli videro la coppia di delinquenti comparire sul campo di battaglia non ci fecero caso. 

Continuarono il loro ridicolo conflitto seguendo le regole cavalleresche stabilite inconsciamente: per il loro modus operandi era sufficiente gettare a terra il nemico, senza inutili spargimenti di sangue, per chiudere la disputa. 

Quando, però, compresero che Rex divorava regolarmente tutto quello che incontrava, fregandosene di regole e di sani principi etici, la battaglia prese un’altra direzione. 

Fu Luke Skywalker a proporre una sorta di armistizio conveniente per tutti. Si mise in posa e con l’uso della forza dei Jedi non dovette neppure faticare. 

Socchiuse gli occhi e convocò con la mente i vari capi di guerra cui propose un’unità di intenti adatta a fronteggiare il nemico comune. Si adeguarono tutti. 

Geronimo, che sino a quell’istante aveva fatto fuoco e fiamme contro i lagunari veneziani, fu il primo a posare le armi e a parlare; anni e anni di guerriglia contro le giacche azzurre ne avevano affinato l’animo in maniera mitica. Smontò dal suo cavallo bianco e dopo aver incrociato le braccia e invocato il suo dio disse: «Oggi è un bel giorno per morire.» 

La sagoma di Ronaldo annuì. Capì che doveva finirla con le fughe sulla fascia, i tunnel e i dribbling calcistici. Si rendeva conto che era arrivato il momento di attivarsi in maniera più propositiva. 

Doveva smetterla di pensare al Pallone D’oro. Sebbene non avesse un vero e proprio titolo di studio e nessun tipo di esperienza in termini di costruzioni, senza dire una parola, afferrò un mattoncino lego e mise la prima pietra di una fortezza che avrebbe dovuto garantire qualche sicurezza. 

Fu seguito a ruota da tutti altri, con David Crockett che vide in questa costruzione la possibilità di rinverdire i fasti della resistenza di Alamo; fu lui infatti a occuparsi degli spalti, delle torrette di avvistamento merlate e del piazzamento di alcuni cannoni Howitzer. 

Purtroppo questo allestimento difensivo non bastò. La fortezza risultò fragile come un Plum Cake appena uscito dal forno: si sbriciolò dopo tre assalti di Big Jim. Nulla rimase in piedi e ai superstiti non servì ripararsi neanche dietro un mezzo corazzato: risultò tutto inutile. 

Fu una carneficina. 

Ai soldatini non servì darsela a gambe, come non bastò provare a nascondersi nel cestino della spazzatura, poiché quel mostro disgraziato, legato a Big Jim, divorò tutto ciò che le sue fauci si trovarono davanti. Passò dalla plastica al materiale più duro senza problemi di digestione. Si arrestò solo qualche ora più tardi quando lo pneumatico di un Bonetti in miniatura gli si incastrò tra i denti aguzzi. 

«Porca miseria» disse allora il teropode, si rivolse a Big Jim. «Cosa faccio adesso?» 

«Che vuoi fare? Hai divorato tutto. Ti manca solo la pista!» 

«Intendevo... come faccio a togliere questa gomma dai denti?» 

«A me lo chiedi?» 

«Cavoli, che pirla sono!» 

«Eh già» disse Big Jim, che intanto meditava su come poteva spupazzarsi la bella stangona bionda. «A questo punto devi proprio andare da un dentista.» 

«Porca miseria, perché non mi aiuti?» 

«Io, le mani, nella tua bocca di merda, non le infilo.» 

Rex allargò le piccole zampe davanti come un uomo. «Ti prego, non posso farcela da solo. Non ci arrivo con gli artigli.» 

Big Jim scosse il capo. Gli doveva riconoscenza. Senza di lui mica avrebbe vinto. Però la situazione non era così semplice; non era tanto sicuro di volerlo aiutare. 

Rex era un famosissimo morto di fame e sicuramente, essendo a corto di cibo, una volta libero dalla gomma si sarebbe pappato la bionda. Magari si sarebbe pappato pure lui. Occorreva una bella idea. Un’idea di quelle che facevano guadagnare un sacco di soldi in borsa. 

Ma l’idea non venne a lui, perché prima ancora che il suo cervello da tonto iniziasse a sviluppare un po’ di seme per concepirla, alle sue spalle udì una voce: «Su una macchina puoi montare, ma le mani addosso alla pupa non le metti!» 

Big Jim si voltò, alle sue spalle c’era Ken. Era spuntato di botto, vestito da cow boy, con cappello e spolverino bianco indosso. Aveva l’espressione torva e parlava con la voce cupa di Clint Eastwood. Teneva una Colt nel fodero a sinistra e un Winchester a tracolla – non solo, puzzava di tabacco e salsapariglia. 

«Cosa?» chiese Big Jim. 

«La bionda è roba mia.» 

«Ridillo se hai il coraggio?» 

«La Barbie non si tocca» disse di nuovo Ken sfiorando con il pollice il cane della Colt. 

«Che te lo dico a fare!» esclamò Big Jim. «Ho vinto la battaglia e me la prendo.» 

«L’unica cosa che puoi prendere è una pistolettata in mezzo al cranio... e cerca di tenere a bada quella specie di smidollato.» 

«Ehi, cerchiamo di chiarirci!» contestò Big Jim. 

«Non c’è nulla da chiarire morettino: tocchi la bionda e sei un bambolotto morto.» 

«Lascia fare a me» suggerì Rex sospingendo Big Jim da un lato. 

Big Jim non reagì. Questa pareva l’occasione giusta per risolvere la questione. Si sarebbe liberato di entrambi in un colpo solo. Dapprima avrebbe incitato il rettile a lanciarsi contro Ken. Poi avrebbe approfittato del parapiglia, che ne sarebbe scaturito, per impossessarsi di un’arma. Con un’arma in pugno non scherzava neppure lui. Avrebbe freddato il sopravvissuto. 

Ma Ken non era un idiota. Intuì la bastardata che Big Jim voleva fare e, appena scorse un piccolo movimento sulla destra, si tuffò sulla sinistra e sfoderò la Colt. Sparò tre colpi in successione. 

Non colpì nessuno, ma Big Jim se la fece addosso. Mai nessuno gli aveva sparato addosso. Non voleva finire morto sparato. Era la morte peggiore di tutte e si nascose alle spalle di Rex. 

Anche Rex aveva defecato per la paura, e ora una scia zozza di sterco ricopriva metà del pavimento della cucina. Sembrava il frutto di un’eruzione di lava, se non fosse stato per l’odore nauseabondo che disseminava. 

C’era una puzza infernale e Big Jim iniziò a vomitare. Dalla bocca gli uscì di tutto: dagli avanzi della cena, alla bile. 

Ken si spaventò. Non pensava che un giocattolo di plastica potesse emettere così tante feci. Suppose che qualcosa non quadrava. Lo sterco era di un colore strano e oltre a tutto riparava Big Jim. Non riusciva a scorgerlo e non osava neppure avvicinarsi perché l’odore era troppo forte. 

Big Jim intanto si era ripreso. Diede un calcio sulla zampa destra a Rex affinché la smettesse di defecare. «Vai dall’altra parte» aggiunse. 

«Come intendi agire?» chiese Rex.

«Fai un giro a destra, mente io lo prendo a sinistra.» 

«Come?» 

«Apri la bocca idiota... userò la gomma del Bonetti.» 

Rex ubbidì con deferenza. Aprì la bocca in modo che Big Jim levasse la gomma, ma intanto con un occhio controllò i movimenti di Ken. Poteva vederlo molto bene stando al riparo dietro la sua montagna di feci. 

Vedeva Ken frastornato e capiva che non sapeva cosa fare. 

«Hai hihito?» 

«Stai fermo» disse Big Jim. 

In quel momento, però, Rex colse un movimento improvviso di Ken, istintivamente chiuse la bocca e tranciò di netto la mano destra di Big Jim. Ne seguì un urlo atroce. 

Ken allora tornò all’assalto. Nel tamburo della Colt gli erano rimasti tre colpi. Se non fossero bastati avrebbe usato il Winchester. Inorridì quando vide il polso monco di Big Jim, ma non tremò e lo colpì con un colpo secco al cuore. 

Rex, a questo punto, tentò una fuga verso il salotto, ma fu ucciso dagli altri due proiettili. Gli arrivarono sulla nuca: un proiettile gli fuoriuscì dalla bocca e l’altro appena sopra gli occhi. La testa andò in frantumi. Metà dei suoi denti, con parte del pneumatico, finirono sotto una poltrona; mentre il resto dell’enorme capoccione svolazzò sul divano dove in quel preciso momento stava dormendo Vergingetorice, il gatto soriano di casa. 

Vergingetorice si svegliò all’improvviso con un miagolio iracondo. Quando sonnecchiava non si doveva toccare: era peggio di un bambino in certi momenti. La fame e il sonno interrotto lo innervosivano come quando qualcuno gli tirava la coda. Non lo sopportava. 

Schizzò dal divano e si avventò contro Ken senza neanche pensare. Ci mise un secondo a farlo a pezzi. Con una zampata gli fece partire la testa di netto. Poi, subito dopo, gli staccò la gamba a morsi all’altezza del femore. Non contento gli urinò pure addosso. Ma non si acquietò. La bestia che aveva dentro voleva godere ancora. Godere come un maiale, visto che la Barbie piaceva pure a lui. 

Gli piaceva proprio la biondina. Passava le giornate a guardarla di sbieco. Se non fosse stato un gatto si sarebbe detto che ne fosse innamorato. Languiva quando si affacciava sul balcone della casa delle bambole a stendere i panni. Non aveva mai conosciuto una bambola così bella e affascinante. 

Vergingetorice non aveva neppure mai visto delle gambe e delle braccia così lunghe. Le sue gatte non erano fatte così; non avevano un corpo così sottile e dei capelli perfettamente lisci, la voce incantevole e gli occhi splendenti come il mare. Alcune avevano un pelo sporco e infestato dalle zecche, inoltre erano aggressive come squali. 

No, la bambola era molto meglio di mille gatte siamesi e lui la sognava per tutte le diciotto ore al giorno che passava a dormire. Doveva approfittarne e la guardò mentre lei sospirava disperata. Guardò le sue gambe lunghe e osservò i suoi capelli fluenti, mentre lei cercava una via di fuga tra le stanze dell’appartamento. 

Ma Vergingetorice l’aveva in pugno. Adattò lo sguardo alla luce e sorrise. Poi cominciò a fischiettare come solo i gatti sanno fare e gli andò vicino. Non aveva bisogno di fare le fusa. Non doveva usare neanche tante moine. La bambola stava lì, di fronte a lui, bionda, bella e sciccosa. Era alla sua portata e non poteva lasciarla scappare come un topo. Non aveva bisogno neppure di una macchina sportiva da guidare. 

La voleva assolutamente. 

D’altronde, adesso, visto che in giro non era rimasto più nessuno, avrebbe inventato qualcosa, se non si fosse concessa. 

 

“Grazie per la lettura” 

 

Immagine - “La bambola” di Nino di Mei 

 

Il racconto appena letto è gratis se volete però aiutare l’autore potete offrirgli un caffè con una donazione Paypal a Ferrugianola@Gmail.com

 

4 commenti:

  1. Spettacolo. Chissà se il gatto se la mangia alla fine.

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  2. Un giro in ottovolante. Bel racconto. Bravo

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    1. Grazie per l'apprezzamento. Lo avevo scritto proprio per gioco molto tempo fa

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