venerdì 1 novembre 2019

Il trentasettesimo capitolo de' Il male tra gli ontani

Venerdì 1 novembre 2019, sono arrivato con quest'oggi al Trentasettesimo capitolo del romanzo Il male tra gli ontani. Anche questa volta, come sempre ho fatto con le altre puntate, ho inserito in fondo al seguente articolo il link per accedere al post di vetrina con tutti i capitoli pubblicati sino a questo momento. Naturalmente vi ricordo che questa storia è frutto della mia fantasia. Tutto è frutto di invenzione, soltanto invenzione. Ogni riferimento a cose, a persone, a luoghi sono del tutto casuali e fittizi. Il prossimo capitolo, il trentasette sarà pubblicato martedì 5 novembre. 


----- Trentasettesimo Capitolo ----- 

Scendemmo in ascensore invece di prendere le scale. Non c’era nessun’altra persona all’interno. Pigiai il pulsante per il piano terra. Scendendo Loredana si studiò il viso nello specchio e si aggiustò le pieghe della camicetta. 

«Sono una scema» disse. 

«Eh?» 

«Sono solo una scema.» 

«Perché sei una scema?» 

«Sono soltanto una povera scema, Manuel.» 

«Non capisco perché.» 

«Davvero non lo capisci?» 

L’ascensore si fermò e le porte si aprirono in automatico. Ci dirigemmo al parcheggio attraversando l’area del pronto soccorso. Trovammo un’ambulanza con il portello aperto ma la sala d’attesa era deserta. Si era alzato un po’ di vento adesso. Giungeva dal lago, da sud. 

Seguii Loredana sino alla macchina. Restai sempre un paio di passi alle sue spalle. 

«Ci sono cascata come una ragazzina» disse appena si fu messa al volante. 

«Cascata in cosa?» 

«Non farmelo dire» disse. 

La guardai. 

«Amo Dario» disse. 

Non riuscii a dire nulla. Lei mi guardò e sorrise, poi girò la chiave e avviò il motore. Non ci dicemmo altro. Restammo in silenzio per gran parte del viaggio di ritorno. Loredana non tolse mai gli occhi dalla strada. Percorremmo il tragitto classico, senza il saliscendi delle valli e delle strade ostiche percorse all’andata. 

Lasciammo la superstrada sopra Bellano. Quando arrivammo a Taceno pioveva. Il temporale arrivò all’improvviso. Era il primo acquazzone in quel mese di agosto. 

«Un po’ d’acqua farà bene al bosco.» dissi. 

Loredana rise. «Sai cosa mi importa del tempo e del bosco e dei vostri serpenti.» 

«Che vuoi dire?» 

«Fingi ancora di non capire?» 

«Dai, non è successo nulla Loredana.» 

«Non chiamarmi per nome, ti prego.» 

«Va bene!» 

«Scusami ma ho paura.» 

«Paura per cosa?» 

«La fai troppo facile, tu.» 

«Non succederà nulla.» 

«Non faremo succedere nulla.» 

«Certo!» 

«E non succederà nulla.» 

«Cosa vuoi che succeda?» 

«Nulla, non succederà nulla.»

Adesso la pioggia scendeva fitta e c’erano dei chicchi di grandine che battevano sul parabrezza dell’auto. Loredana scalò le marce e rallentò un poco. 

«Con tutto quello che sta accadendo, sono pure stata capace pure di innamorarmi come una ragazzina. Ho un marito che ha rischiato di essere ucciso e mi sono innamorata come una scema. Prometti che non succederà nulla?» 

«Non succederà nulla!» 

«Lo devi promettere.» 

«Non succederà nulla, lo prometto!» 

«Perché non sei partito con quella smorfiosa con cui uscivi?» 

Dal finestrino non si vedeva niente. La pioggia era fitta e sulle montagne lampeggiava. 

«L’ho capito subito appena ti ho visto che sarebbero nati dei guai. Quando ti sei presentato a casa mia mi hai guardata come per dire “cosa vuole questa qua?”» 

«Davvero hai pensato questo?» 

«Sì.» 

La guardai. «Non ricordo come ti ho guardata.» 

«Non come stai facendo ora.» 

Distolsi lo sguardo e tornai a guardare dal finestrino. Si stava appannando per la pioggia. 

«Dario non mi merita. Non è giusto.» 

Che diavolo, pensai. 

«Non hai fatto nulla di male» dissi. 

«Non dovevi capitare da queste parti.»  

Ci fermammo sulla piazza del paese. Loredana accostò vicino al marciapiede e spense il motore. Continuava a piovere. 

«Aspetta che smetta» disse. 

«Non hai un ombrello in auto?» 

«Adesso smette, vedrai.» 

Piovve fitto per una decina di minuti ancora. Stavamo lì nell’auto in silenzio ad aspettare che la pioggia cessasse e nel frattempo ascoltavamo il suo ticchettio. Non smise mai del tutto. 

Alla fine decisi lo stesso di andare in albergo. Aprii la portiera e misi fuori una gamba. Loredana mi bloccò con una mano. 

«No, aspetta. Non andare» disse. «Magari ci trovi un’altra festa.» 

«Male che vada mi ubriaco.» 

«Vieni a casa. Andiamo a casa.  Che mi frega di ciò che pensa la gente e poi non facciamo nulla di male.» 

Non pioveva più quando varcammo il cancello della villetta ma il cielo era nero. Sopra le montagne si scorgevano ancora dei lampi ma ora i tuoi erano più lontani. 

Loredana mi fece accomodare in salotto, mentre avviò la lavatrice. Poi mi condusse in cucina. 

L’aiutai a preparare degli spaghetti. O meglio, fui io a cucinarli. Mi occupai del condimento e preparai un sugo con dell’olio extravergine di oliva, uno spicchio d’aglio, della cipolla e dei pomodori locali. Le dissi che non doveva fare nulla, soltanto guardare. Lei annuì. Restò lì in piedi a osservare cosa facessi. Ma non fece nulla. La obbligai soltanto a provare lo stato di cottura della pasta. 

Bevemmo un po’ di vino durante la cena, ma non esagerammo. Parlammo un po’ di rettili e del lavoro che dovevo fare nei giorni seguenti, ma senza entrare troppo nel dettaglio. Non volevo spaventarla con quello che avremmo dovuto fare. Più tardi mi raccontò alcuni aneddoti della sua vita con Dario. Pareva felice. 

Non aveva mai provato con Dario quello che stava provando con me, disse. Le dissi che non doveva dirle certe cose. Era la verità. Gli voleva bene e lo amava ma era stato un amore cresciuto nel tempo. Volevo del caffè? Mi era indifferente. Lei non beveva caffè la sera prima di dormire, ma lo avrebbe preparato per me. 

Mi disse che non avrebbe dovuto bere neppure del vino. Non le faceva bene, ma le piaceva berlo con me. Le piaceva stare con me. Anch’io ero contento di stare con lei. Non dovevamo dire certe cose, disse. Certe cose facevano solo male. Disse che avevo la faccia stanca. Me ne sarei andato in albergo adesso. 

La toccai con una mano. Non dovevo toccarla. La facevo star male ogni volta che la sfioravo. Mi alzai. Lei mi accompagnò alla porta. Ci guardammo per qualche secondo ma nessuno fece qualcosa. 

Me ne andai. 

Non dormii quella notte. Non c’era nessuna festa nelle sale dell’albergo ma non potei chiudere occhio. Non mi stavo comportando bene. Lo sapevo. Ogni volta che avevo quella donna vicino facevo uno sforzo immenso per non abbracciarla. Nei momenti passati con lei avrei voluto abbracciarla milioni di volte. Avrei voluto abbracciarla quando si era specchiata in ascensore scendendo verso il parcheggio dell’ospedale. Avrei voluto stringerle le mani mentre si stirava la camicia davanti allo specchio. Avrei voluto che avesse fermato l’auto sotto il temporale. Avrei voluto abbracciarla mentre preparavo il sugo per gli spaghetti. 

Forse avrei voluto essere nei panni di Dario nel momento in cui gli aveva lavato i capelli nella camera di degenza. Avrei voluto che fosse lì nella stanza di quell’albergo ora. Avrei voluto farmi radere la barba e forse avrei voluto passare il resto della notte con lei vicino e avrei voluto accarezzarle i capelli. 

Chissà se mi stava pensando. Sì, mi stava pensando. Ne ero sicuro. Chissà cosa avrebbe detto a Dario. Le avrebbe detto cosa provava per me? Aveva capito cosa provavo per lei senza che le dicessi nulla. Magari anche Dario lo avrebbe capito  vedendoci assieme. Le persone non sono mai stupide quando c'è di mezzo l'amore. Magari si era già fatto delle domande. Avrei voluto che fosse sereno nella sua stanza d’ospedale. 

Ero ancora sveglio quando sentii bussare alla porta. Mi ero sdraiato sul letto senza spogliarmi appena salito in camera. Andai ad aprire già vestito. Era la signora. 

«Ti vogliono da basso, Manuel.» 

«Arrivo. Due minuti.» 

Andai in bagno e mi lavai il viso, poi scesi di sotto. Trovai due signori della zona davanti al banco del bar. Uno era calvo, piccolo e piuttosto nervoso. L’altro, quello che parlò, aveva un tatuaggio: ritraeva un capo indiano. Mi disse che avevano visto uno dei serpenti che cercavo. 

«Dove?» 

L’uomo aveva notato il serpente muoversi tra le crepe di una baita appena sopra la fonte del maggengo dove iniziava il parco. 

«L’ho scambiato per una biscia all’inizio, ma non è una biscia.» 

«Quando è accaduto?» 

«Ieri sera prima del temporale.» 

«Pensi sia ancora la?» 

«Non saprei ma lo ritengo possibile.» 

Parve una possibilità più che probabile anche a me. Gli chiese se aveva tempo per accompagnarmi. 

«Certo» disse.

Tornai di sopra in camera a cambiare le scarpe. Andammo da Loredana a prendere degli strumenti che potevano essermi utili e le chiavi della baita del maggengo. Non tutto era andato perso nell’incendio. 

Loredana mi disse di fare attenzione. 

«Voglio solo monitorarlo, per il momento. Farò attenzione.» 

«Non vuoi chiamare anche Paolo?» 

«Vedrò come si mette la situazione.» 

«Stai attento.» 

«Certo.» 

Mentre mi recavo sul posto pensavo a come era stata la cattura dell’altro serpente marrone. Speravo si fosse messo in trappola da solo anche questo. Andammo in auto sino all’area industriale. Poi attraversammo il ponte e poco più avanti salimmo il solito sentiero. Il temporale della sera precedente aveva rinfrescato l’aria. Era stato un acquazzone violento e c’erano pozze sul sentiero che si asciugavano al sole. 

Non fu faticoso come altre volte salire al maggengo. Lasciai il materiale nella baita di Dario, poi salii verso il punto dove in teoria era rintanato il rettile. La baita era isolata e disabitata. Era di un signore di Venezia. Aveva una piccola piazzola sul davanti e aveva per metà le mura interrate. Sul retro c’erano dei prati e alcuni muri a secco rabboccati, più in alto una rupe che si perdeva tra gli alberi. 

«Non si può avvisare il proprietario?» chiesi. 

«Non viene spesso da queste parti. Giunge raramente pure in paese.» 

«Come entriamo?» 

Uno degli uomini mi mostrò la finestra dove aveva visto infilarsi il rettile. Non aveva vetri. Le gelosie erano aperte e quella sinistra pendeva lateralmente. 

Salii sul prato e cercai di vedere cosa ci fosse all’interno spiando dalla finestra, senza avvicinarmi troppo. L'interno era buio e non vidi nulla ma sembrava un ottimo riparo per un serpente marrone. Controllai i lati della baita. Erano circondati da ortiche ma non trovai molti posti da cui il serpente poteva uscire, sempre che fosse ancora all’interno. I due uomini si mantennero sempre a una certa distanza. 


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"Grazie per la lettura" 

Il male tra gli ontani in vetrina (tutti i capitoli pubblicati)

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