Venerdì 18 ottobre 2019, sono arrivato al Trentatreesimo capitolo del romanzo Il male tra gli ontani. Anche questa volta, come sempre, ho inserito in fondo al seguente articolo il link per accedere alla post di vetrina con tutti i capitoli pubblicati sino a questo momento. Naturalmente vi ricordo che questa storia è frutto della mia fantasia. Tutto è frutto di invenzione. Ogni riferimento a cose, a persone, a luoghi sono del tutto casuali e fittizi. Il prossimo capitolo, il trentaquattresimo sarà on line martedì 22 ottobre.
----- Trentatreesimo Capitolo -----
Durante la notte mi svegliai, mi alzai, attraversai la stanza al buio sino alla finestra e sbirciai tra le persiane appoggiando le mani sul davanzale. Faceva caldo. Presi le scarpe e le sistemai sotto il calorifero, poi tornai vicino al letto e feci un po’ di flessioni. Quando sentii i muscoli delle braccia indurirsi, mi alzai di nuovo, mi lavai e mi vestii. Lasciai le chiavi della camera nella toppa e scesi da basso. Aprii piano il portone dell’albergo e feci un giro a piedi tra le case.
Mi ero affezionato un po’ al vecchio centro del paese. Ci vivevo, per modo di dire, da un paio di mesi. Mi piaceva. Le case erano tutte uguali e avevano portici che in estate erano sempre freschi anche nelle giornate più torride. Era bello camminarci con il buio. Ora molta gente era in vacanza sugli alpeggi o nei posti di mare, ma per qualcuno ero diventato uno del luogo. Non capivo ancora il dialetto ma non era più un qualcosa di incomprensibile come i primi giorni del mio arrivo.
Mentre camminavo scorsi un gatto uscire dalla botola di una porticina. Si fermò a guardarmi in mezzo al viottolo. Lo chiamai e cercai di fare amicizia. Il gatto si avvicinò e si strusciò sulla mia gamba sollevando la coda. Era soltanto un cucciolo e neppure troppo timoroso.
Lo sollevai da terra, prendendolo per la collottola e gli chiesi cosa facesse in giro a quell’ora della notte. Il gatto miagolò. Pareva sano e ben nutrito e il pelo era lucido e nero ma forse era soltanto un effetto dell’oscurità. Pensai che avesse un padrone da qualche parte. Magari un bambino con cui giocava. Lo rimisi a terra piano. Per un po’ mi seguì nonostante gli suggerissi di non farlo, finché da una strana laterale sbucò un signore intento a spingere un motorino. Appena lo mise in moto, il gatto scomparve.
Non so per quanto girai senza avere una meta. Imboccai un paio di volte dei vicoli senza uscita e dovetti tornare indietro ma non persi mai l’orientamento. Tornai all’albergo che albeggiava. Sedetti sugli scalini della macelleria di fronte all’entrata e attesi che qualcuno aprisse.
«Stai bene Manuel?» udii dopo un poco.
Alzai il capo. La signora era affacciata a una finestra della pensione. Annuii.
«Quando sei uscito?»
Glielo dissi, ma non sapevo perché fossi uscito.
«Scendo ad aprirti.»
Non so per quale motivo quella donna mi volesse così bene. Lo sentivo senza che me lo dicesse. Forse le ricordavo un figlio o magari un amore giovanile. O forse Dario pagava molto per il mio soggiorno.
Mi rizzai in piedi e mi spostai vicino al portone. Sentii dei rumori all’interno, mentre leggevo il menù sulla bacheca sistemata vicino all’entrata. La porta si aprì.
«Stai bene?»
«Sì, non riuscivo a dormire. Non mi andava di restare nella stanza. Spero di non aver disturbato nessuno.»
«Vai in sala da pranzo che ti preparo la colazione.»
Alzai le due tapparelle nella sala da pranzo principale. Non c’era nessuno e volevo essere utile. La signora avrebbe apprezzato. Poi sedetti a un tavolo dove mi fosse possibile spiare verso la porta della cucina.
La signora mi portò una spremuta di pompelmo, delle fette biscottate e un piattino con un po’ di burro da una parte e alcuni cucchiai di marmellata dall’altra. Il caffè me lo servì in una scodella con del latte caldo. Bevvi la spremuta e mangiai con calma una fetta biscottata, inzuppandola un po’ nel latte. La marmellata era di mirtilli: era deliziosa e ne spalmai un poco su un’altra fetta. Il burro non lo assaggiai neppure. Mangiai un altro paio di fette e finii la marmellata. Terminai anche il caffelatte.
Intanto la sala da pranzo si riempì poco alla volta. Gli ospiti erano quasi tutti pensionati: tutta gente di città che trascorreva i mesi estivi all’aria fine di montagna. Avevo parlato un po’ con tutti e sapevano chi fossi.
Un signore anziano mi chiese ragguagli sulla situazione. Mi disse che dai giornali non capiva molto cosa stesse accadendo in paese e nei dintorni. Mi domandò di Dario. Gli dissi che stava bene e che non c’era nulla di grave nella sua testa. Mi chiese anche dei serpenti e mi pregò di spiegargli esattamente quanto fosse grave la faccenda. Gli dissi che presto avrei sistemato tutto: non doveva guastarsi la vacanza con sciocche preoccupazioni.
Il resto della mattinata lo passai al telefono. Ebbi molto da fare. Dopo le pulizie mi rinchiusi in camera per lavorare meglio. Parlai con Luca e mi disse che a Treviso si moriva dal caldo. Non pioveva e i fiumi della città erano in secca. Poi parlai con il sindaco del paese. Mi informai sulla condizione dell’uomo attaccato durante la corsa. Chiamai la ragazza di Lecco ma non rispose. Ricevetti una telefonata dall’Australia e parlai un poco in inglese con l’erpetologo che si era occupato dell’invio del siero antiveleno. Mi cercò un giornalista locale e mi fu proposta l’organizzazione di una conferenza sulla linea di quella che avevo tenuto in palestra il mese di luglio.
A mezzogiorno salii sino a casa di Dario e Loredana. Lei non c'era. Una vicina mi disse che era tornata dal marito in ospedale. Mi chiesi perché non me lo avesse detto la sera prima e ne fui un po’ deluso.
Tornai alla pensione e pranzai da solo. Mangiai un po’ di polenta con selvaggina e funghi. Dopo pranzo mi recai nel parco. Nel primo pomeriggio si poteva salire il sentiero al riparo dal sole e portai a spalla tutto quello che mi sarebbe servito per eseguire ciò che avevo in mente. Faceva caldo, ma non c’era umidità nell’aria. Da un po’ di tempo non pioveva neppure. Una volta giunto alla baita aspettai l’arrivo di Paolo.
Non ci mise molto. Andammo a piazzare le videocamere vicino al lago. Sistemammo i dispostivi in modo da poter incrociare le registrazioni e filmare un’area vasta. Li nascondemmo con le foglie e con i rami che trovammo sul terreno. Facemmo tutto con molta professionalità e cura. Non mi limitai ai meri aspetti tecnici, tuttavia. Per un paio di ore perlustrai in lungo e in largo la zona.
Appena fui raggiungibile dal segnale telefonico notai un messaggio di Loredana: era stato inviato dall’ospedale.
La chiamai.
Rispose Dario.
«Tutto bene?»
«Sì, mi sono anche alzato, le cose vanno meglio, vanno meglio del previsto» disse.
«Ottimo.»
«Ti trovi nel parco?»
«Abbiamo appena sistemato le videocamere.»
«Dove le avete sistemate?»
Glielo dissi.
«Ah bene… Non l’hai più visto?»
«No, per ora no, ma so che si trova da queste parti.»
«Lo voglio catturare io.»
«In che senso?»
«Hai capito Manuel. Lo voglio catturare io.»
«Ma sei in ospedale?»
«Sto meglio. Non ci resterò a lungo. Tienilo monitorato, ma non toccarlo. Voglio essere io a catturarlo.»
«Non è che il colpo alla testa ti ha fatto male?»
«Non ti dico altro. Voglio catturarlo con le mie mani.»
Mi passò Loredana. La salutai e chiusi la comunicazione.
«Credo sia matto» dissi a Paolo.
«Perché?»
«Vuole essere lui a catturarlo.»
«Faglielo credere.»
Quella sera dopo cena, andai a trovare Loredana. Era appena tornata dall’ospedale. Mi ero stupidamente fatto delle remore prima di salire ma parve felice di vedermi. Sedemmo sul divano. Dario stava bene e mi disse che l’indomani non sarebbe andata in ospedale.
«Se vuoi ci vado io domattina.»
«Davvero ci andresti? Dario vorrebbe sempre vedere qualcuno. Ne sarebbe contento.»
«Per me non è un problema. Le videocamere le controllo quando torno nel pomeriggio. Non c’è nessuna fretta, non posso catturare il serpente senza di lui: hai sentito no?»
«Non ascoltarlo neppure!»
«Domani mattina cercherò di convincerlo a non guarire troppo in fretta così, nemmeno tu, perderai il sonno.»
«Ecco, bravo.»
Rise.
«Meno male.»
«Cosa, meno male?»
«Ridi! Ieri sera mi sembravi molto preoccupata.»
«Ero preoccupata per un'altra cosa.»
«Cosa?»
«Lascia stare.»
La guardai. Lei arrossì.
«Quando sarò tutto finito vi invito a Treviso.»
«Ci sono stata l’anno scorso, ero rimasta in albergo quando Dario è venuto da te: è stato allora che lo hai conosciuto?»
«No, l’ho conosciuto a una rassegna che allestiscono a Milano.»
«Però è una bella città Treviso.»
«Sì, è molto bella. In autunno ci sono delle sagre imperdibili. Vi inviterò davvero.»
«Ci verremo più che volentieri.»
Parlammo di tante cose inutili. Parlammo di luoghi di vacanze. Parlammo di cibo e di musica e di animali e di vita in un paese. Ma non ci dicemmo tutto. Si fece tardi. Prima che me ne andassi mi chiese se potevo passare l’indomani prima di recarmi in ospedale. Voleva darmi delle cose per Dario. Dissi di sì. Mi accompagnò in strada.
«Non perderti!»
La guardai alla luce dei lampioni. «Non mi perdo.»
Sorrise.
Mi incamminai lungo la strada per il centro. Dopo un po’ mi girai. Lei era ancora sull’uscio a osservarmi. Alzò la mano per salutarmi. Feci lo stesso.
Ritornai da lei il mattino prima di partire per l’ospedale come promesso. Aveva comprato delle brioches fresche per Dario e per me. In una borsa c’erano un accappatoio e degli asciugamani. Disse che dovevo chiamarla per qualsiasi motivo. In ogni caso mi aspettava al rientro.
Partii.
Era la terza volta in quattro giorni che andavo in ospedale. Al mattino per fortuna non c’era molto traffico sulla superstrada ma appena mi trovai sull’altro ramo del lago la faccenda cambiò. Subito dopo aver imboccato la strada Regina la circolazione era impossibile e si proseguiva soltanto a passo d’uomo. Anche attraversare i paesini sulla costa fu piuttosto critico. La zona era piena di turisti e c’era gente che andava in spiaggia. L’acqua del lago luccicava al sole e c’erano indicazioni di camping ovunque. Vidi che c’erano molte auto con targa straniera. Per qualcuno doveva essere un’estate favolosa.
A Domaso la colonna di auto si fermò del tutto. Non capii cosa stesse accadendo. Forse c’era un incidente. Nei giorni precedenti avevo notato dei cantieri di lavoro ma non mi aspettavo un blocco i primi giorni di agosto.
Ora non mancava molto all’Ospedale ma restai fermo per quasi mezz’ora. Spensi il motore dell’auto e smontai e andai sul marciapiede per vedere in fondo alla strada ma vidi soltanto la colonna di auto bloccata lungo tutto il rettilineo e nessuna che arrivasse in senso contrario. Poi si colpo comparve un’auto della polizia e dopo un poco le auto si rimisero in moto ma non riuscii mai a comprendere cose fosse successo.
Giunsi in ospedale assai più tardi del previsto. Dario era sveglio. Se ne stava sdraiato sul letto. In camera c’era un altro degente. Posai il sacchetto con le brioches sul comodino alla sua destra, poi levai dalla borsa l’accappatoio e gli asciugamani. Dario mi indicò l’armadio alle mie spalle dove metterli.
«È stata dura oggi» dissi.
«Perché?»
Lo osservai. Gli occhi erano quasi guariti e le bende mi parevano più piccole. Gli avevano rasato i capelli a zero. «Strade bloccate, auto ferme!»
«C’è troppa gente il mese di agosto sulla strada principale» si intromise l’altro degente.
«Speriamo ti mollino alla svelta.»
«Non prima di lunedì, domani non mi dimettono e quindi neppure sabato o domenica, ma potrei andare a casa anche adesso. Sto benissimo.»
«Riposati un po’» dissi.
«Devi essere in forma se vuoi catturarlo.»
«Sei già andato a prendere le registrazioni?»
«Oggi pomeriggio o stasera, mi faccio portare da Paolo quando ritorno in paese.»
L’altro degente ci ascoltava. Suppongo che fosse a conoscenza di nulla.
«Guai a te se lo tocchi.»
«Una volta che sarai a casa vedremo cosa fare. Se lo catturo te lo porto qui!»
Dario sorrise. Si sollevò un poco sul letto e spostò il cuscino dietro la schiena. «Forse è meglio di no.» Guardò il giovanotto nell’altro letto. «Lui odia i rettili.»
«Davvero?»
«I soli serpenti che posso vedere sono quelli morti» disse.
«Come mai?»
«Non c’è un “come mai”. Mi fanno schifo: ne ho il terrore.»
«Non ti ha detto che lui li sa ammaestrare?»
«Non prendetemi in giro.»
Più tardi restammo soli. Ero vicino alla finestra. Nel palazzo di fronte ci stava una cappella. Sul muro vicino vidi che c’era l’indicazione per la camera mortuaria.
«Mi spiace pensare che non puoi parlare di serpenti con il tuo vicino di letto.»
«Tu scherzi. Ha veramente il terrore quel povero ragazzo. Quando gli ho raccontato che morirò per il morso di un serpente quasi sta male.»
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"Grazie per la lettura"
Sono un'appassionata di telefilm, ma prima di vedere una serie aspetto di evere tutte le puntate, perchè non voglio rimanere con la curiosità e aspettare una settimana! Quindi questo romanzo mi piace molto, se aspetto ogni martedi' e venerdi' per leggerlo! Complimenti come sempre Ferruccio e buona giornata!
RispondiEliminaMi fa davvero molto piacere Anna, grazie
EliminaProvo a immaginarmi come potrebbe finire questa storia...
RispondiEliminaTi saprò dire
Mi saprai dire Ernesto. Grazie
EliminaNon saprei ma alcune volte mi sono trovata a leggere parti più brevi di questo romanzo e ogni nuova parte prima di leggerla viene osservata in lunghezza...che sarà mai?
RispondiEliminaBuonaserata
L.
I capitoli non sono tutti uguali, alcuni sono di cinque sei cartelle editoriali, altri passano la decina. Il capitolo finale è soltanto di due cartelle.
EliminaDi solito quando scrivo un romanzo mi fermo a una certo punto e solitamente li segno come fine capitoli, indipendentemente dalla lunghezza. Grazie Linda
Beh non nascondo che questa tua spiegazione ha esaudito in parte una mia sana curiosità del fascino attraverso il quale uno scrittore si muove scrivendo ... e ti ringrazio.Ma avevo anche volutamente sotto intendere che prima di leggere il nuovo episodio ne guardo la sua lunghezza,sperando che mi offra più righe compiaciuta del tempo che posso immergermi nella lettura.Ecco questo intendevo .
RispondiEliminaBuon fine settimana!
L.
Mi lusinga questo aspetto, grazie Linda
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