mercoledì 24 luglio 2019

Il settimo capitolo de' Il male tra gli ontani

Siamo quasi alla conclusione della prima parte del romanzo. Siamo infatti al Settimo capitolo de' Il male tra gli ontani. L'erpetologo Manuel Cattelan con Dario Longhi si reca nel paese dove si trova il Parco che controlla. Sono convinto che apprezzerete la storia in cui poco alla volta vi troverete immersi. In aggiunta ai vari collegamenti tra i capitoli, ho inserito in fondo al post il link alla vetrina con tutti i capitoli. Anche oggi aggiungo che ogni riferimento a luoghi, personaggi, strutture e fatti reali sono del tutto casuali. Buona lettura. 


----- Settimo Capitolo ----- 

Più tardi, quando vidi il paese da lontano, rimasi sconcertato. Non so cosa mi fossi aspettato di trovare. Per me i paesi di montagna erano un’altra cosa. Li credevo tutti come Cortina. Immaginavo di vedere pianori e cottage alpini isolati. Magari mi sarei aspettato di vedere scoscesi sentieri da fare in mountain bike o al massimo torrenti spumeggianti per pescare ma non certamente un paesaggio del genere. 

Insomma è difficile descrivere cosa provai. Non pensavo che posti del genere esistessero. Le case sembravano incollate alla montagna con l’attack più resistente. C’erano solo palazzi, uno più alto dell’altro, colorati con un pastello e appiccicati tra loro come la gente in uno stadio gremito e non si arrivava mai. 

Dovemmo prima scendere a fondovalle, attraversare per intero l’area industriale – dove scorreva il torrente che dava il nome alla zona – e poi risalire i due tornanti sulla strada a monte. Con l’auto non si poteva andare in nessun altro posto, nemmeno a pagare. Niente c’era, se si escludeva un gran numero di officine artigianali e cantieri di lavoro aperti. Forse era un paese incompiuto. Solo la strada finiva lì. Potevi solo tornare indietro oppure scappare a piedi verso le montagne della zona se avevi coraggio. 

Ci fermammo in piazza del Sagrato. Dario parcheggiò l’auto, sulla destra, poco oltre una fila di panchine. Dedussi che stava cominciando una funzione religiosa poiché c’erano delle donne dirette verso la chiesa. 

Erano anziane, quasi tutte vestite come una volta. Indossavano dei panni scuri lunghi fino ai piedi. Mi rivolsero uno sguardo senza decenza come se fossi una bestia rara. Passandomi accanto sentii che parlavano tra loro in dialetto stretto. 

Dario si accorse del mio stupore, però non disse nulla. Doveva essere abituato al comportamento delle sue compaesane. Mi sa che non ero il primo a mostrare sorpresa. Vidi che sorrise mentre guardavo le donne. Poi mi prese per un braccio e mi indicò il pendio dall’altra parte della valle. 

Il parco si estendeva in quella zona. Stava a un chilometro di distanza in linea d’aria e occupava diversi ettari del territorio comunale posto a sud. Esisteva da otto anni. Aveva il suolo coperto da fitti boschi rigogliosi ed era percorso da due valli impervie. Nella parte bassa, meno soleggiata, specie d’inverno, c’erano castagni, faggi, querce, a volte frassini e poi noccioli e ontani, fitti come i capelli di certi neonati; insomma un minestrone di piante perfetto per cervi e caprioli. 

Salendo verso l’alto, invece, la vegetazione cambiava. I boschi si trasformavano in una foresta di aghiformi, larici a prima vista e ogni tanto, si scorgeva qualche radura. Ci stava pure qualche baita isolata ma non sembrava una zona abitata se si escludeva un maggengo posto in un area prativa a metà della montagna. 

Non vidi nessuna strada. C’erano solo sentieri e mulattiere. Mi venne un dubbio tremendo. Temevo che Dario volesse andarci ora e glielo chiesi, anche se in realtà era solo una domanda retorica. Cosa volete che vi dica: non avevo nessuna voglia di farmi una camminata tra i boschi al tramonto. Adesso desideravo farmi una doccia e mangiare. 

«No, è inutile andarci adesso» rispose lui. 

«Meno male!» 

«Sei stanco?» 

«No, però.» 

«Andiamo in albergo, devi essere stanco.» 

Alzai le spalle. 

«Ti porto in albergo.» 

Bisognava andarci a piedi e scaricammo il bagaglio dall’auto, sotto gli occhi attenti di un paio di ragazzini che erano apparsi nel frattempo. Si erano, come dire, accampati tra le panchine della piazza vicino a una baita in legno con sopra le insegne della Proloco locale. Vedevo che analizzavano gli strumenti che avevo portato da casa. Immagino stessero scambiando gli arnesi per mazze da golf e forse stavano cercando di capire per quale motivo mi trovassi lì. Difficile pensare che mi credessero un campione di quello sport. Non ci tolsero gli occhi di dosso finché non imboccammo una strada laterale alla chiesa. 

L’albergo era situato nel centro vecchio del paese. C’erano delle indicazioni ma non fu semplice arrivarci. Dovemmo percorrere una stradina in porfido verso la parte bassa del paese. Era un continuo saliscendi e la strada era piena di strette curve tra le case vecchie. Mi sarei perso da solo, ma non ci volle molto tempo. 

Dopo un poco sbucammo in una piazzetta posta di traverso. L’albergo stava lì o meglio la pensione era lì; aveva l’entrata nascosta da un portico. 

Entrammo e ci dirigemmo verso il banco del bar. 

Non c’era la hall. Di fronte al banco, sulla sinistra dell’entrata, c’era un grande camino in pietra, spento, con attorno un paio di tavoli. Erano occupati da alcuni uomini intenti a giocare a carte ma non vidi nessun inserviente. Sembrava un momento di calma. 

Posai il bagaglio a terra mentre Dario si diresse verso l’entrata della cucina posta lateralmente. Si bloccò sulla soglia e guardò dentro. Tossì per farsi sentire. Subito dopo ne uscì una donna piccola e carina ma grassoccia che si mise a parlare con lui senza prendermi in considerazione. Parlavano fitto a voce bassa come se non volessero farsi sentire. Vedevo che Dario annuiva alle domande della donna ma lo vedevo scettico e non riuscivo a capire il motivo di tutta questa pantomina visto che l’albergo sembrava deserto. Mi sa che non piacevo alla donna. 

Continuarono per qualche minuto, poi vidi il profilo di Dario sorridere. Si girò e mi guardò e mi invitò con un cenno. 

Lasciai il bagaglio dove era e andai da lui. 

«Hai un documento?» chiese. 

Presi il portafogli dalla tasca posteriore, lo aprii e ne trassi la carta d’identità. La diedi alla signora. Lei guardò la foto, poi mi guardò senza spostare la faccia, alzando solo gli occhi. 

«Gliela ridò domani mattina» disse. Aveva una forte inflessione dialettale. 

Annuii. 

«Tra un minuto le mando la ragazza per la camera» disse. «La stanza si trova al terzo piano.» 

«Bene. Al terzo piano» dissi e mi voltai. 

Andai verso il banco e raccolsi il bagaglio. Dario mi seguì. 

«Mi aspetti per cena?» chiese. 

Non volevo guastargli la serata. Aveva una moglie e forse doveva andare da lei. 

«Non è un disturbo?» 

«Figurati. Alle nove?» 

Guardai l’orologio appeso sopra il banco. Mancava qualcosa alle otto e mezza. Avevo una trentina di minuti per lavarmi e cambiarmi. Ce l’avrei fatta e gli dissi che andava bene. Lo guardai uscire a questo punto. 

Poi arrivò la ragazza con le chiavi della camera. Suppongo fosse la figlia della donna con cui avevo parlato. Cambiava solo il colore dei capelli, per il resto era identica. Raccolsi il bagaglio e la seguii, sulle scale, sino al terzo piano. La pedinai finché non aprì la porta di una stanza e attesi che spalancasse le persiane sul balcone che aveva davanti. 

Entrai e ascoltai ciò che aveva da dirmi. 

La ragazza mi sciorinò le cose essenziali della camera. Parlò in italiano senza mai guardarmi in viso. Aveva la stessa inflessione dialettale della madre. Se lo desideravo potevo avere un televisore. Non mi serviva, dissi. Se occorrevo di un telefono invece dovevo scendere da basso. Le dissi che avevo il cellulare. Chiese se desideravo qualcosa di particolare. Le risposi che non desideravo nulla. Allora poteva andare. Poteva andare tranquilla per conto mio. 

Non attese altro, infilò le chiavi nella toppa e uscì, trascinandosi la porta che si chiuse alle sue spalle. 

Non disfeci il bagaglio. Non andai neppure a guardare la vista alla finestra. Sedetti sul letto, lasciando il bagaglio alla rinfusa nell’angolo della stanza dove l’aveva posato entrando. Tastai il materasso in più punti per vedere quanto fosse duro. Poi mi tolsi le scarpe e le calze e la camicia e mi sdraiai. 

Non doveva essere una pensione molto frequentata. D’altronde pareva piuttosto modesta. Doveva lavorare principalmente come ristorante. Non pareva un posto per turisti. C’era solo una decina di camere e perlopiù mi parevano chiuse. La mia stanza ne era l’esempio. Probabilmente era stata aperta con il mio arrivo. Si capiva benissimo. Era troppo ordinata e aveva un odore come se la finestra non fosse stata aperta da un anno. Ma era molto pulita. 

Guardai ancora una volta in giro, poi mi alzai e sistemai la sacca, con gli attrezzi che avevo portato da casa, in piedi vicino all’armadio. Levai l’elastico colorato che mi raccoglieva i capelli davanti alla specchiera e mi guardai allo specchio. I capelli parevano gialli più del solito. Alla fine entrai in bagno per farmi una doccia e la barba. 

Tornato in camera chiamai Treviso con il cellulare per sapere come era andata la giornata. Parlai per qualche minuto con il mio braccio destro. Fu una telefonata breve e rassicurante. Poi levai dal bagaglio una camicia pulita e dei calzoni estivi e li indossai. 

Una volta vestito, scesi da basso in ciabatte di gomma con i capelli sciolti e ancora umidi sulle spalle. 

Dario era già tornato da casa. Indossava ancora la divisa e stava in piedi davanti al banco, con le spalle girate alla porta. Guardava gli uomini che giocavano a carte. Erano gli stessi che avevo visto arrivando. 

Dario non sembrava molto attento al gioco ma gli giunsi vicino senza che se ne accorgesse. Sorrise quando mi vide. Ma non potei farci niente. Quando giravo coi capelli sciolti facevo sempre questo effetto. Dovevo ricordare qualche barbaro dell’età del Bronzo. 

Uno degli uomini seduti sollevò gli occhi. Era grasso e aveva un pizzetto grigio sul mento. Aveva la bocca piegata verso il basso con i denti tutti sbilenchi e cariati. Mi guardò per qualche istante. Credo che mi stesse confondendo con qualcuno. Scosse il capo e disse qualcosa in dialetto agli altri. Gli altri risero. 

Non capii il motivo per cui ridevano ma era evidente che mi riguardava. Doveva avere a che fare con la stessa reazione che avevo suscitato in Dario. Però non avevo intenzione di provocare una rissa per così poco. Di certo, se fossi stato in altro posto l’avrei scatenata senza problemi. Non sarebbe stata la prima volta. Ma non sapevo con chi avevo a che fare. 

Ci pensò Dario a smorzare la situazione. Disse qualcosa in dialetto e al tavolo si placarono subito. Doveva averli impressionati con qualche frase a effetto. Ovviamente non attesi che la faccenda andasse oltre. Con la fame che avevo, desideravo altro. 

C’erano due sale da pranzo. Una era chiusa da una sottile porta a vetri. Dario mi disse che veniva utilizzata solo la domenica per i turisti di passaggio e per le grandi occasioni: matrimoni, eventi particolari, cose del genere. Era stata aggiunta di recente e poteva ospitare cento persone. L’altra, al contrario, quella dove ci stavamo recando, era più semplice. Aveva il soffitto coperto da tavole di legno e capii che veniva usata nei fine settimana invernali per vedere le partite di calcio. I muri erano pieni di poster di stelle del pallone. Aveva posto per una cinquantina di persone e c’era una bella televisione a schermo piatto che copriva metà parete. Non pareva una sala molto luminosa. 

Sul fondo c’era una porta che portava fuori nel giardino. Era vuota adesso, i tavoli erano puliti e ci sedemmo noi due soli: Dario con la schiena alla parete; io di fronte, in modo da poter vedere l’ingresso. Aspettammo che qualcuno venisse per le ordinazioni. 

«Cosa volevano?» domandai. 

«Nulla di offensivo» rispose Dario. «Le solite stronzate.» 

«Non conoscono la lingua italiana?» 

Scimmiottò un detto locale in dialetto. Non capii niente. 

«Andiamo meglio» dissi.   

Sorrise. «Non te la prendere. Ci farai l’abitudine. Quando sono arrivato dieci anni fa pensavo di essere un idiota.» 

«Infatti mi sento un idiota.» 

«Ti abituerai, non si tratta di gente cattiva.» 

«Speriamo.» 

Arrivò la ragazza per la cena. Era la stessa che mi aveva mostrato la camera. Si era solo cambiata gli abiti e truccata un poco il viso. Pareva arrabbiata. Mi sa che la nostra presenza la costringeva a un lavoro suppletivo. Elencò una serie di piatti tipici locali senza voglia. In ogni caso, parevano pietanze ricche e nutrienti e capii che mi sarei abbuffato. 

«Prendiamo del vino?» mi chiese Dario. 

Non dovevo guidare quella sera e avevo il letto qualche metro sopra la testa. Ero stanco e lo avrei retto male ma con il cibo magari non mi avrebbe fatto un effetto devastante. Non avrei corso rischi inutili. 

Ordinammo una brocca di vino rosso sfuso. Mangiai parecchio e durante il pasto bevvi quasi tutto il vino della brocca. Dario ne bevve solo un bicchiere. 

Non vidi più la ragazza. La cena ce la servì sua madre. Entrò nella sala diverse volte per vedere se le cose erano a posto. Al termine arrivò a chiedere se volevamo dei dolci o del formaggio. 

Volli un pezzo di Bitto. Aveva un sapore selvaggio di foraggio e ci spalmai un po’ di miele. Fini pure il vino. 

Dario prese un gelato. Poi ordinò un caffè. 

Gli stavo spiegando il motivo per cui, io, non lo prendevo la sera, quando si affacciò un ragazzo sulla soglia della sala. Aveva la faccia da bambino, sebbene fosse brizzolato attorno alle tempie. Era molto scuro di pelle. Chiamò Dario. Dario si voltò. Il ragazzo rimase sulla soglia. Indossava dei pantaloni mimetici e una maglietta bianca firmata. Non osava venire avanti per la mia presenza suppongo. 

«Ti cerco da due giorni» disse. 

«Sei stato fortunato allora: mi hai trovato.» 

«Tua moglie mi ha detto che eri qui. Credo di aver trovato un’altra delle tue vipere.» 

Dario sobbalzò sulla sedia. «Dove?» 

«Credo sia una delle tue vipere. Ha degli anelli blu attorno al corpo.» 

«Viva?» 

«No, morta. Ammazzata. Ha la testa schiacciata.» 

«Dove l’hai lasciata?» 

«È nello zaino, fuori sulla moto.» 

Dario cambiò espressione. Probabilmente non era una bella notizia. Si alzò e mi presentò brutalmente il ragazzo. Dopotutto la forma voleva la sua parte. 

Era un universitario che nel tempo libero gli dava una mano. Si chiamava Paolo: l’ennesimo uomo dei boschi. Gli strinsi la mano. Poi uscimmo tutti insieme in strada sotto gli occhi incuriositi degli avventori. 

Il ragazzo era giunto con una moto da trial. Lo zaino era agganciato al manubrio. Era uno zaino militare verde, di quelli che usano i cacciatori, in tela grezza. Lo sfilò dal manubrio e lo posò in terra. Slegò i lacci e lo aprì. La vipera era contenuta in un sacchetto di plastica. Il ragazzo rovesciò il sacchetto sulla strada e la vipera caddè sul porfido come un anguilla. Si sentiva la puzza di putrefazione a dieci metri di distanza. Con il caldo africano della sera ti faceva svenire. Dario si chinò a esaminarla tenendo una mano davanti al naso. Si trattava di un esemplare lungo almeno settanta centimetri. Da vivo doveva essere stupendo. Era bruno con delle bande scure oblique. 

Dario si spostò lateralmente affinché la luce dei lampioni potesse illuminarlo meglio. Poi lo verificò ruotandolo sulla strada: aveva il ventre argenteo. Era un maschio. Si capiva benissimo nonostante la tenue luce presente. La testa era spiaccicata come della lamiera sotto una pressa. Dario lo studiò in silenzio per qualche minuto. Controllò gli anelli colorati che la vipera aveva ancora sul dorso. Dopo di che annuì sicuro come il sole. 

«È Caporetto. Lo riconosco. Dove l’hai trovato?» 

Il ragazzo che l’aveva portata non ebbe bisogno di pensare. Ci teneva a mostrarsi efficiente. «Sul sentiero prima di arrivare alle baite del maggengo. In mezzo alla mulattiera. Un tornante sopra la cappella.» 

«Sei sicuro?» 

«Mica sono scemo.» 

«Certo… scusami è che mi sembra impossibile. Non può essere un caso.» 

Mi chinai vicino a lui. Sentivo di essere un pochino brillo per il vino che avevo bevuto. Non sbronzo ma quasi. Facevo dei rutti silenziosi e a ogni rutto i sapori del vino e del formaggio mi debordavano in gola. 

«Qualcosa non ti convince. Perché?» chiesi. 

Dario distolse l’attenzione dalla vipera e mi guardò. «Il suo dominio era situato un chilometro più in alto dal punto dove è stata trovata. Mi domando come possa essere arrivata lì. Si tratta del secondo esemplare che si sposta in questo modo. Prima Alesia e adesso Caporetto. Una femmina e un maschio. Hai mai sentito di esodi di Vipere?» 

«Mai.» 

«Mi domando cosa possa averle spaventate. Mi capisci?» 

«Magari l’hanno solo spostata» dissi. 

«No, l’hanno uccisa dove l’ho trovata» disse il ragazzo. 

In quel momento, si presentò sulla soglia, la padrona del locale. Dubito che fosse uscita per il timore che ce ne andassimo senza pagare il conto ma non si può mai sapere. Quando vide la vipera in terra si mise a sbraitare come una capra. 

«È morta» disse Paolo senza perdere la calma. «Non vede? Cosa vuole che faccia?» 

«Morta o non morta, non la voglio sulla porta del mio albergo.» 

«La portiamo via» disse Dario stizzito, mi sembrava che stesse cambiando umore. 

«Non avrà paura di una vipera?» le domandai restando chinato. Il vino mi aveva messo di buon umore e avevo voglia di scherzare. Accarezzai il dorso della vipera con le dita. «Sembra velluto.» 

«Che schifo! Ma non sentite che puzza?» 

Mi alzai e sollevai la vipera prendendola per la coda. Gliela agitai davanti. «È pronta per essere mangiata» le dissi. «Perché non ce la cucina? Sono meglio del tacchino.» 

Paolo si mise a ridere. La donna si mise le mani sugli occhi. Ma avevo il sospetto che stesse solo prendendosi gioco di noi. Faceva solo la schizzinosa. 

«Rimettila nel sacchetto» mi disse Dario scocciato. Aveva assunto davvero una brutta espressione. Pareva che qualcuno gli avesse guastato la serata. Non me la sentii di contraddirlo. Misi il serpente nel sacchetto e lo ridiedi a Paolo. Lui disse che avrebbe cercato di sbarazzarsene senza creare problemi. Avrebbe buttato la carogna in qualche canale di scolo fuori dal paese.  

Rimise il sacchetto nello zaino. Poi montò sulla moto, si mise lo zaino sulle spalle e diede un colpo al pedale d’avviamento. Il motore della moto rimbombò nella strada. 

«Ci vediamo domani?» chiese a Dario. Si stava mettendo il casco. 

«Non so, domani dobbiamo recarci nel parco.» 

Paolo mi guardò. «Ce la mangiamo un’altra volta allora.» 

«Certamente» dissi. 

«Ciao» disse. 

«Ciao.» 

Rientrammo nell’albergo. La signora servì il caffè a Dario. A me volle offrire una grappa ma prima pretese che mi lavassi le mani. Non voleva che insudiciassi il bicchiere dopo aver toccato con le dita il serpente. Le faceva ribrezzo. 

Dovetti ubbidire naturalmente, poi mi bevvi la grappa in piedi al banco. 

«Davvero sono buoni da mangiare?» chiese ora. 

«In realtà non ne ho mai mangiati. Però in certi posti del mondo lo fanno. Nel Texas mangiano serpenti a sonagli e mocassini e in Africa certe vipere sono una prelibatezza.» 

«Si mangiano le scarpe?» chiese uno dei tizi seduti alle mie spalle. 

Aveva ascoltato ciò che avevo detto alla donna. Mi girai a guardarlo. Lui mi guardò sorridente. Aveva il viso rubicondo. Forse aveva bevuto. 

«Era una battuta.» 

«Ho capito.» 

Si rivolse a Dario. «Perché vi preoccupate di una vipera?» chiese mentre si alzava. Era un tizio grosso come un tir, sulla cinquantina. Aveva finito di giocare a carte. Stava facendo solo il ficcanaso. Si avvicinò a disse alla signora di preparare altre grappe. 

«C’è qualcosa che le spaventa» disse Dario. 

Il tizio dapprima bestemmiò, poi attese che la signora riempisse i bicchierini. Mi disse di prenderne uno. Lo feci e lui lo toccò con il suo; poi si rivolse a Dario, fece lo stesso gesto aggiungendo qualcosa in dialetto che ovviamente non capii. 

«Nel parco non c’è più un vipera e nemmeno altre bisce» obiettò Dario. 

«Se ne staranno rintanante da qualche parte quelle bastarde» disse un altro uomo che si era limitato ad ascoltare. 

Dario non lo prese neppure in considerazione. Anzi non prese nessuno in considerazione. Era andato in fissa per qualcosa. Lo capivo benissimo. Chissà cosa stava tramando. Era evidente che non voleva mostrarsi scortese ma non aveva neppure toccato la grappa che gli era stata offerta. 

«Bisogna metterci un campanello» disse ancora uno dei presenti. «Se avessero un campanello saremmo tutti più felici.» 

«Sarà meglio che me ne vada» disse Dario. 

Niente, non riusciva a riacquistare l’umore. Nemmeno la grappa lo stava aiutando. Niente gli avrebbe risolto i problemi; sempre che problemi fossero. 

Per me invece andava tutto bene, ormai ero ubriaco. Mi spiacque che si sentisse così. 

«Non è presto?» chiesi. 

«Devo andare prima che mia moglie mi uccida. Già ho avuto una discussione prima di cena.» 

«Per colpa mia?» chiesi. 

«No, affatto, ma sai come sono le donne.» 

Uno dei tizi gli disse qualcosa in dialetto. Qualcosa di volgare ma lui non ci fece caso. Non ci stava più dentro se capite quello che voglio dire. Non resistette. Mi afferrò per un braccio. Disse che sarebbe passato l’indomani, dopo colazione a prendermi. Poi scambiò una battuta con la signora, salutò i presenti e imboccò l’uscita. 

È ovvio che io non andai a letto. Sentivo di non avere sonno e dopo un poco, con i tizi che c’erano, iniziai a fare il professore. Insomma stavo troppo bene. Cominciai a discorrere di serpenti e tutto il resto. Quasi certamente mi davano corda perché ordinai un giro di grappe. Poi toccò a un altro ordinarne ancora e sul banco si fece una fila di bicchierini. 

Dopo un poco pensai di prendere un altro giro ma questa volta gli altri rifiutarono. Si erano fatte quasi le due e qualcuno mi disse che l’indomani lavorava. Sbuffai per la delusione ma verosimilmente era davvero tardi, poiché anche la signora voleva chiudere. 

Un attimo dopo sparirono tutti. Andai alla cassa per pagare quello che dovevo. Ricordavo di aver fatto un giro di grappe per tre persone. La signora però non volle niente poiché Dario aveva lasciato detto che non dovevo sborsare un soldo. Restai lì perplesso al momento, poi le dissi che se non avrebbe accettato i miei soldi non sarei andato a dormire. Vai a dormire, disse lei. Le dissi che non mi sarei mosso per niente. Lei insistette ancora una volta ma alla fine cedette e accettò una banconota.  Le dissi di tenere tutto e imboccai le scale per andare di sopra. 


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"Grazie per la lettura" 

Il male tra gli ontani in vetrina (tutti i capitoli pubblicati)

8 commenti:

  1. Io lo trovo una delizia questo romanzo

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  2. Anche a me piace moltissimo questo romanzo e mentre leggo anche la fantasia produce immagini come la visione di un bel film.

    Credo sia il più bel modo per avvicinarmi ai serpenti ,perché li temo terribilmente...


    L.

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    1. Grazie Linda, vedrai che alla fine capirai sa sola il significato metaforico delle presenza dei serpenti. Grazie mille per la pazienza e per il feedback

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  3. Adesso la metafora l' associo ad un altro bellissimo film :il pianeta delle scimmie.

    ... le percezioni e le emozioni sono sempre un passo avanti :-)

    Grazie a te


    L

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    1. Non avevo pensato al pianeta delle scimmie.
      ci rifletterò. Grazie Linda

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  4. Avvincente, Ferruccio, avvincente davvero

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