----- Decimo Capitolo -----
Nel pomeriggio andai a fare un giro nella zona da solo. Volevo conoscere gli aspetti peculiari del territorio. Non ero l’ultimo arrivato per prendere certe iniziative. In passato avevo perlustrato aree ben più pericolose.
Una volta, in Africa, avevo fatto ammattire i rangers a causa di questo mio atteggiamento. Era accaduto in uno dei miei primi viaggi. Mi trovavo nel bush in attesa che fosse allestito il campo per la notte e non avevo resistito alla curiosità. Prima che fosse pronta la cena, all’insaputa della scorta, mi ero cacciato nei guai. Ero andato nei dintorni a curiosare e naturalmente finì che mi persi tra le euforbie. Fui ritrovato solo a notte fonda, nascosto – in qualche modo – nella vegetazione.
Adesso non avrei corso rischi. Imboccai un sentiero che saliva tra i prati sopra le baite. Dario mi aveva spiegato che dovevo attraversare il dominio di due vipere, perciò salii con molta cautela lasciando poco alla volta il maggengo alle mie spalle.
Era una giornata torrida. Il sole batteva a picco. Salendo, guardai in ogni fessura del terreno. Tra le pietre dei muri a secco non scovai nulla. Nonostante mi sforzassi, non scorsi neppure un ramarro. Forse non era l'orario più corretto per termoregolarsi.
Ci stavano solo cavallette. Dovevano essere a milioni. Facevano un chiasso assordante e continuo. Non le vedevi con tutto il fieno che c’era da tagliare. Il loro stridore ti stordiva le orecchie.
La pista era asciutta e proseguiva evidente tra l’erba folta. Finiva con l’infilarsi in una macchia di ontani. Superai i prati e proseguii nella foresta finché udii il frastuono di un torrente. Pensai che il sentiero doveva servire per arrivarci e seguii il rumore nonostante la traccia della pista ora fosse appena percepibile. C’erano felci e ortiche sparse su tutto il sentiero.
Oltrepassato un rigagnolo d’acqua sbucai in mezzo a una piccola radura assolata. Adesso la pista si perdeva ma il torrente scorreva lì davanti. In realtà era un ruscello in questo periodo. Scendeva dai ripidi pendii che cingevano la valle e fluiva in una gola rocciosa. Notai alcune pozze d’acqua create dell’erosione, profonde e verdi e scure ma il torrente si poteva oltrepassare senza guadarlo. Bastava balzare tra le pietre sparse lungo il percorso.
Mi abbassai vicino all’acqua per lavarmi il collo e le spalle e poi mi sciacquai con calma le gambe, irritate e piene di bolle per le ortiche. Restai lì un poco a guardare le pozze e gli effetti delle pietre sul fondo. Poi cercai un posto all’ombra sulla riva per sdraiarmi. Finii con l’assopirmi come un bambino.
Mi svegliai perché qualcuno urlava. Guardai le ore. Mancava qualche minuto alle quattro. Avevo dormito un’ora. Erano voci di donna che sentivo ma non afferravo che tipo di grida fossero. Provenivano dal basso, appena sotto la gola e mi rizzai in piedi.
Avevo dormito in una posizione scomoda ed ero mezzo indolenzito però sapevo che dovevo andare a vedere. Non potevo scendere lungo il torrente in quel punto e mi infilai tra i cespugli di ontani tenendo il corso del torrente sulla sinistra. Poco più in basso, il torrente creava un’ansa dividendosi in due rami. Al suo interno restava un terrapieno d’erba e melma e oltre il terrapieno c’erano due ragazze in costume da bagno.
Erano loro che urlavano. Appena mi videro tra gli ontani, mi gridarono qualcosa. Capii che parlavano di un serpente ma non le diedi ascolto e continuai a scendere sul terreno in maniera casuale dato che non c’era una traccia precisa. Mentre scendevo distinsi una pernice sbucare dalle felci del terrapieno e la osservai puntare veloce verso una boscaglia oltre il corso del torrente. Qualcosa doveva averla spaventata e osservai meglio verso il punto dove si era alzata.
Il serpente era proprio lì, nella melma ai limiti dell’argine, nell'ombra. Era comparso all’improvviso. Stava a una decina di metri sopra le due ragazze. Non si vedeva molto bene e si dibatteva come se stesse combattendo con qualcosa. Aguzzai lo sguardo ma non riuscii a vedergli la testa. Non si trattava di una vipera comunque. Era un serpente troppo lungo per essere una vipera.
Visto da lontano, sembrava quasi un biacco ma poteva trattarsi pure di un saettone avvolto com’era tra le foglie umide che c’erano sulla riva del torrente. Era evidente l’addome giallo ma il colore del dorso era mimetizzato con la vegetazione. Sembrava che stesse cercando di soffocare un altro animale.
Feci qualche passo avanti e invitai le ragazze a restare ferme. Poi scesi vicino alla riva sempre controllando l’argine opposto. Il serpente continuava a ruotare furiosamente su se stesso. Doveva avere tra le spire una grossa preda e pensai che non dovevo farlo scappare per niente al modo. Dedussi che se fossi entrato nell’acqua magari non mi avrebbe sentito, così slacciai gli scarponi e mi tolse le calze senza distogliere lo sguardo dal rettile. Posai tutto sopra una masso ed entrai nel torrente sempre controllando la sua posizione.
L’acqua era fredda di sorgente e per un secondo sentii il respiro arrivarmi in gola ma continuai a scendere lentamente mentre mi abituavo e mi adattavo alla temperatura. Giunsi a circa cinque metri dal rettile quando notai qualcosa di strano tra la melma. Per poco non mi prese un accidente. Vidi chiaramente l’altro serpente che lo stava ingoiando. Ormai gli aveva completamente inghiottito la testa.
Erano due serpenti enormi. Mentre uno si dibatteva avvolgendolo tra le spire, l’altro lo ingoiava. Avevano entrambi le stesse dimensioni. Pensai a un biacco che stava mangiando un altro biacco ma osservandolo bene capii che mi stavo sbagliando. Pensai che si trattasse di una natrice allora, poi ricordai che le natrici non erano ofiofoghe.
Mi sentii le gambe tremare; non per la paura, ero soltanto stupefatto da quello che stavo vedendo e non avevo il coraggio di proseguire. Aveva visto dei serpenti ofiofaghi in azione unicamente in Africa. Avevo visto un cobra che mangiava una vipera soffiante.
Sapevo che le coronelle e i biacchi a volte si nutrivano di altri rettili ma non avrei mai pensato di vederli all’opera sulla riva di un torrente lombardo. Mi abbassai in ginocchio a osservare, poi raccolsi un sasso e lo lanciai verso i serpenti senza neppure prendere la mira.
Fu solo un gesto istintivo ma la pietra li colpì in pieno e fu un attimo dopo. I due rettili scomparirono nella melma rotolando intrecciati l’uno nell’altro come una corda.
Volevo assolutamente catturarli e mi gettai nel torrente.
Adesso ero scalzo e correndo nell’acqua m’infilzai un piede; sentii qualcosa trafiggermi la carne e di riflesso sentii un dolore fitto strizzarmi il cervello. Fu un dolore atroce ma durò un istante. Le ragazze intanto urlavano ancora di più.
Si erano spostate su alcune grosse pietre del torrente. Era ovvio che non capivano cosa stessi facendo. Alla fine mi fecero perdere di vista i serpenti. Fu un attimo ma me li lasciai sfuggire e per quanto indagai non scovai più nulla. Niente da fare. Rovistai tra i cespugli del terrapieno, usando un bastone che avevo raccolto e spostai le felci con estrema cautela, muovendo una foglia alla volta ma alla fine dovetti desistere. Erano scomparsi.
A questo punto mi resi conto di essere ferito. Non sentivo dolore ma stavo calzo nel torrente e vedevo che c’era del sangue nell’acqua fredda.
Ero un poco intirizzito e forse era questo il motivo per cui non sentivo male, ma sapevo di essermi ferito, perciò cercai un posto tra le pietre asciutte dove stare. Andai a sedermi sopra un grosso masso al sole.
Mi accorsi del guaio che avevo. Sotto la pianta del piede sinistro avevo un taglio longitudinale di tre centimetri. Dovevo essermi infilzato con una pietra aguzza visto che il torrente pareva pulito. Sanguinavo e ora con il sole che mi riscaldava cominciavo a sentire davvero il dolore. Compresi che ero stato uno stupido a muovermi così.
«Dove sono finiti?» chiese una delle ragazze. Avevano smesso di urlare ma non si erano spostate dalle pietraie.
«È ferito?» chiese l’altra.
Erano molto giovani e abbronzate. Mi parevano graziose anche se le avrei uccise. Una aveva i capelli sciolti, l’altra portava un berrettino colorato con la visiera.
«Non è niente» risposi.
«Sono ancora lì dentro?» chiese una delle due indicando il terrapieno con lo sguardo.
«Non possono essere svaniti» dissi.
«Sono velenosi?»
Non ero riuscito a vederli bene. «Non penso. Ma è meglio che restiate dove siete, potrebbero essere pericolosi.»
«Sono in amore?» chiese quella con berretto.
«No, credo si stessero mangiando.»
Si guardarono tra loro.
Io mi alzai e tornai di nuovo in acqua nonostante la ferita al piede mi facesse zoppicare. Recuperai le calze e le scarpe più in alto, poi discesi il torrente sino al punto dove c’erano le ragazze.
Mi ero sbagliato solo un poco. Una ragazza non era per niente speciale, ma l’altra – quella con il berretto – avrebbe potuto sfilare in passerella. Le vidi gli occhi verdi e il viso da bambola.
«Cosa ci fare da queste parti?» domandai.
Una delle ragazze era del paese. Quella più carina veniva da Lecco. Stavano preparando gli esami di maturità. Mi dissero che stavano nella zona da due giorni. Non erano sole. Avevano molto da studiare. Erano in una compagnia di otto ragazzi, tutti della stessa classe: tre maschi e cinque femmine. Si erano organizzati in un paio di tende nei dintorni del maggengo. Mi dissero che avevano passato la mattina a studiare Economia Aziendale e avrebbero ripreso a studiare una volta tornate alle tende. Gli altri erano andati a fare un giro nel parco.
«E lei che ci fa?» mi chiese quella con il berretto mentre l’altra ragazza scese verso il punto dove avevano lasciato i vestiti.
Le dissi chi ero e le dissi cosa facevo. Le spiegai cosa faceva un erpetologo per vivere e cosa faceva un erpetologo da quelle parti. Le dissi che con me poteva stare tranquilla. Nessun serpente si sarebbe avvicinato. Lei mi ascoltò senza dire una parola. Ascoltò impressionata. Poi mi guardò il piede.
«Dobbiamo chiamare qualcuno?» chiese.
«Non è niente.»
«Sta perdendo molto sangue.»
Alzai le spalle. «E’ solo un graffio.»
«Sarà ma bisognerebbe disinfettarlo.»
Ci sedemmo tra le pietre del torrente, poco lontano dal punto dove erano scomparsi i serpenti. Immaginavo che da un momento all’altro potevano riapparire ma non dissi nulla alla ragazza.
«Ci vorrebbero dei cerotti» disse guardandomi negli occhi.
«Mi basta che si fermi l’emoraggia» dissi ma sapevo che non era così semplice.
Era un taglio profondo e l'emorragia non si sarebbe fermata tanto facilmente. Se ci fosse stato un medico mi avrebbe messo dei punti di sutura.
«Come si chiama?» mi chiese.
Glielo dissi. Lei mi disse il suo. Poi mi disse il nome della ragazza che stava tornando.
«Non ha qualcosa per fare una fasciatura?» mi chiese.
Non avevo niente. Ero salito dalle baite a torso nudo e calzoni corti.
«Aspetti!» disse.
Si alzò e disse alla ragazza che saliva di fare in fretta. «Le posso prestare il mio fazzoletto» disse.
Mi sistemai come potei. Con una cassetta del pronto soccorso avrei fatto sicuramente un lavoro migliore. Mi lavai per bene nell’acqua fredda e ci lasciai il piede dentro affinché l'acqua fredda mi inibisse un poco l’emorragia. Poi usai il fazzoletto della ragazza per fasciarlo. Strinsi più che potei. Cercai di fare del mio meglio, ma sapevo che non bastava. Dovevo tornare alla baita e dovevo disinfettare la ferita e magari suturarla con qualcosa.
Ci tornai accompagnato dalle due ragazze: non se la sentirono di mandarmi solo. Sembravano preoccupate, sebbene credo che lo fossero più per i serpenti che avevano visto battersi che per la mia ferita. Facemmo un percorso diverso e arrivammo dal basso questa volta – attraverso una strada usata dalle mucche – dopo essere passati per il campo dove le ragazze erano accampate.
Mi stettero vicino come due guardie svizzere ma camminai senza il loro sostegno. Salii al maggengo aiutandomi con un bastone che avevo trovato su al torrente. Le ragazze volevano condurmi sino alla porta della baita ma non ci arrivammo.
Dario mi stava venendo incontro. Scendeva tra i prati sotto le baite. Quando vide che zoppicavo si accigliò. Avevo in mano la scarpa sinistra. La destra l’avevo calzata. Il fazzoletto che mi fasciava il piede era di nuovo rosso di sangue. Gli raccontai cosa era successo al torrente. Gli raccontai cosa avevo visto.
«È un posto pieno di natrici» disse.
«Non credo fossero natrici. Volevo prenderli e per poco non ci lascio il piede.»
«Lo vedo.»
«Hai una cassetta del pronto soccorso?» gli domandai.
«Certo... perché non ti sei portato il cellulare?»
Già, perché non avevo portato il cellulare?
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"Grazie per la lettura"
Il male tra gli ontani in vetrina (tutti i capitoli pubblicati)
Sono davvero curioso di sapere cosa succederà con questa storia
RispondiEliminaSpero di riuscire a tenerti sempre incollato, grazie Ernesto
EliminaGià perchè non aveva portato il cellulare?
RispondiEliminaOgni tanto servono...
Sempre più avvincente.
'Notte
Grazie Anna di Maria
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