giovedì 13 giugno 2019

Il gatto che sognava di essere un delfino - Trentatreesimo capitolo

Ancora pochi capitoli de' Il gatto che sognava di essere un delfino. Siamo al trentatreesimo. Adesso senza cambiare il resto dell'introduzione vi ricordo che potete rileggere il romanzo dall'inizio. Se si tratta della prima volta che capitate sul mio blog attirati da questo titolo, non rovinatevi la lettura, ripartite dall'inizio. Per facilitare il compito potete saltare all'articolo Il gatto che sognava di essere un delfino in vetrina che troverete alla fine di questo post. Seguite pure l'etichetta se vi è comodo. 


----- Capitolo Trentatrè ----- 

L’ultima vera avventura l’ho vissuta in casa, circa un mese prima di partire per il Ponte dell’arcobaleno. È stata una delle volte in cui ho provato più paura, e in vita mia, se avete letto la mia storia, ne ho viste di belle. Di fronte a certi avvenimenti però non si può fare niente. La natura, se vuole, ci seppellisce in un secondo. 

Da tempo non uscivo più di casa, se non per andare a lasciare i miei bisogni in un campo vicino oltre la strada o nel giardino da basso. Quella sera mi resi conto che stava accadendo qualcosa di strano - merito dell’udito e dell’olfatto di cui la natura ci ha elargito - un paio di ore prima che si scatenasse un terremoto. 

Non immaginavo cosa potesse succedere. Sentivo delle vibrazioni strane nel campo di energia. 

Marco era fuori per lavoro e la mia paura era legata più che altro al fatto che non accadesse qualcosa di grave a Lisa e al feto che portava in grembo. 

Così iniziai a starle in mezzo ai piedi e a strusciarmi addosso a lei. 

«Che c’è Mic?» mi domandò sorridendo. «Non vorrai farmi cadere?» 

Volevo dirle di mettersi al sicuro. Volevo dirle che presto sarebbe successo qualcosa di grave e terribile, ma non fui in grado di farglielo capire. 

Lei però capì che mi stava accadendo qualcosa. «Sei strano Mic» disse. 

Mi sollevò e mi prese in braccio: non lo faceva da tempo. 

Le sfiorai una guancia con il muso e cercai di infilarmi nella sua camicetta. 

Lisa rise e si accarezzò il ventre. «Non sarai geloso» aggiunse. 

Mi rimise a terra. Ma non bastò a calmarmi, restai teso e nervoso e mi strusciai di nuovo sulle sue gambe. 

«Che c’è Mic? Che ti succede?» chiese ancora. 

Non riuscii a trasmetterle nessun vero allarmismo e mi spiacque. Avrei voluta metterla su chi va là. Magari convincerla ad andare via, a recarsi in un altro posto. Avrei preferito se fosse andata in un'altra città, credo. 

Lisa invece rimase tranquilla. 

Preferii non uscire neppure io. 

Lo so che era un rischio restare in casa, ma ero troppo vecchio e malandato per uscire. Se mi fossi trovato in difficoltà all’aperto non so come avrei potuto cavarmela nelle condizioni in cui ero ridotto. 

Attesi che Lisa andasse a letto e mi infilai sotto il divano, benché dovetti faticare, e lì rimasi con la speranza che non succedesse nulla di veramente grave. 

La scossa arrivò un paio di ore dopo, in piena notte. Non fu particolarmente violenta pensando al cambio del campo di energia che avevo avvertito in precedenza. Non durò neppure a lungo, a dire il vero: neanche una ventina di secondi. Ma bastò affinché abbandonassi il rifugio sotto il divano a defecassi dietro i tendoni della finestra del salotto per lo stress. 

Percepii che nessun altra scossa si sarebbe ripresentata per il resto della notte e riuscii anche a dormire un poco, rimanendo sempre al riparo sotto il divano. 

Il mattino dopo, al telegiornale, la prima notizia che diedero riguardava il sisma. Lisa, allora, si avvicinò, mi guardo sconcertata e scosse il capo. 

«Tu lo sapevi e volevi dirmelo» disse, «e io scema non ho capito.» 

Non si arrabbiò neppure per le  feci che lasciai sotto il calorifero: se solo gli esseri umani riuscissero a capire e a parlare con gli animali, come sarebbe bello vivere sulla terra. 


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"Grazie per la lettura" 

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