giovedì 25 aprile 2019

Il gatto che sognava di essere un delfino - Ventiseiesimo capitolo

Oggi sono al Ventiseiesimo capitolo con Il gatto che sognava di essere un delfino. Mic ci racconta il pranzo diNatale e cose più specifiche dei gatti. Adesso vi ricordo che potete rileggere il romanzo dall'inizio. Se si tratta della prima volta che capitate sul mio blog attirati da questo titolo, non rovinatevi la lettura, ripartite dall'inizio. Per facilitare il compito potete saltare al post Il gatto che sognava di essere un delfino in vetrina che troverete alla fine di questo post. Altra strada è quella di seguire l'etichetta o muovervi tra i vari capitoli. 


----- Capitolo Ventisei ----- 

A pranzo, una dozzina di ore dopo, mangiai come se non ci fosse futuro. Le solite due fette di prosciutto cotto per iniziare. Nella ciotola misero anche del salame e del prosciutto crudo. 

Poi, dopo averla fatta raffreddare un pochino, quel giorno, mi diedero della carne di manzo lesso e di vitello arrosto. 

Per dolce, leccai un pochino di torta di mele e annusai del panettone. E panna. 

Marco non aveva scordato la faccenda del collarino e mi mise al collo un tovagliolo di carta rossa, questa volta senza stringere. Sembravo un garibaldino, ma stetti al gioco poiché non avvolgeva troppo e non mi irritava. 

Mi fecero diverse foto con il cellulare e confesso che non esitai a mettermi in posa come un divo. 

Alla fine cominciò a suonare il campanello alla porta e a presentarsi gente per lo scambio dei regali e con la voglia di festeggiare e di mangiare un po’ di panettone e bere spumante e così mi levai il tovagliolo e pensai bene di andarmene via. 

Non c’era in giro caos. Era evidente che la gente preferiva stare in casa e non sarebbe uscita ancora per diverse ore e ne approfittai per trascorrere un po’ di tempo a marcare il mio territorio nella tranquillità più assoluta. 

Nel momento del mio massimo splendore, più o meno dal quinto all’ottavo anno di età, disponevo di un’area di diversi chilometri quadrati con diversi campi di attività. 

Ora, per chi non lo sapesse, i campi di attività non sono altro che delle zone dove noi eseguivamo e svolgevamo compiti precisi. 

C'erano i campi di caccia e i campi da gioco. C'erano quelli per l’eliminazione delle feci e delle urine, quelli specifici per la riproduzione - da non confondere con i vostri night club - e quelli dove coltivavamo i rapporti con altri gatti. 

Mantenere la pazienza verso un nostro simile in una determinata area territoriale dipendeva dal tipo di attività a cui era destinata, e dal numero di gatti che si trovavano lì dentro. 

Per esempio, sul campo di gioco più gatti c'erano meglio era per tutti: un po’ come le vostre discoteche e i vostri stadi di calcio. 

Il campo di riproduzione, invece, era un vero campo di battaglia e dava addito a molta invidia, aggressività, tensioni e di solito la presenza di un altro gatto poteva scatenare delle lotte furibonde. 

Parlando invece del territorio di caccia si tollerava la presenza di un altro gatto soltanto se le prede erano abbondanti, ma bisogna dire che il territorio di caccia meriterebbe un altro discorso a parte, visto che io e quasi tutti i gatti che conoscevo non avevamo bisogno di cacciare - se non per gioco. 

Poi c'erano i campi di isolamento: delle zone dove noi ci ritiravamo per evitare i contatti. 

Io possedevo otto aree di isolamento: erano i luoghi dove mi mettevo a riposare o dove andavo a sistemarmi quando non mi sentivo bene. 

Quattro erano in casa: il divano, il letto di Lisa e Marco, le sedie sotto il tavolo e il davanzale della finestra di cucina. Uno era la grondaia del vicino e gli altri tre non li avevo mai confessati a nessuno. 

Non li avrei rivelati neppure sotto tortura. Vi dico solo che erano situati in alto: tra questi c’è pure il posto dove sarei andato a prendere il biglietto per il Ponte dell’Arcobaleno. 

Certi gatti che conoscevo, poco socievoli e un po’ aggressivi e sostenuti, usavano la zona di eliminazione come un campo di isolamento, mentre io per i miei bisogni mi servivo degli orti e dei campi circostanti. 

C’era pure il campo di aggressione. Era  una zona che non aveva particolari funzionalità ma era solo uno spazio di dimensioni variabili del tutto personale: la nostra area di comfort. Le intrusioni all'interno di questo spazio scatenavano quasi sempre un’aggressione istantanea. 

Adesso, quello che mi apprestavo a fare quella sera di Natale, non era altro che un giro del mio territorio mentre tutti erano a casa a digerire. Dopotutto con tutto quello che avevo mangiato non dovetti neppure faticare a lasciare i soliti e precisi segnali di marcatura con la mia urina. 


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"Grazie per la lettura" 

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4 commenti:

  1. Abbiamo molto da imparare da Mic e dagli animali in genere, anche noi dovremmo avere molte zone segretissime di isolamento! Buon 25 Aprile Ferruccio!

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