giovedì 15 novembre 2018

Il gatto che sognava di essere un delfino - Terzo capitolo

Continua la programmazione con il terzo post e terzo capitolo del romanzo breve o racconto lungo Il gatto che sognava di essere un delfino (non ho ancora deciso come classificarlo). Ancora una volta di Giovedì. Naturalmente cercherò di servirmi sempre della giornata di giovedì. Per poter legger il primo e il secondo capitolo vi basta seguire i link o cliccare sull'etichetta in fondo al post. Per il momento è questa le strada che cerco di seguire. Spero che la lettura vi diverta. E naturalmente non lesinate con i commenti. 


----- Capitolo Tre ----- 

All’alba Lisa e Marco ricomparvero. Non li avevo visti tornare se non come ombre silenziose. Chiacchieravano sottovoce. Forse credevano che dormissi ancora e non volevano svegliarmi. Avevano spalancato la finestra del soggiorno facendo entrare la luce del sole e si erano spostati in cucina.  

Non mi mossi e non miagolai.

Li potevo scorgere sbirciando di nascosto da sotto il divano. Erano seduti attorno al tavolo e mangiavano delle fette biscottate, spalmate con quello schifo di marmellata alla frutta. Guardavano il telegiornale a un piccolo televisore appiccicato alla parete in alto. 

Adesso avevo quasi la certezza che non mi avrebbero fatto del male. La fame, però, mi attanagliava lo stomaco e non potevo continuare a restare rintanato. 

Così, ignorando le conseguenze cui potevo andare incontro, mi feci coraggio e uscii da sotto il divano. 

Risero appena mi notarono e non mi tolsero gli occhi di dosso per diversi istanti. 

Più Lisa che Marco: doveva vedermi come un essere incantevole e meraviglioso. Pareva imbalsamata. Sorrideva come una bambina e intuivo che il suo unico desiderio del momento fosse quello di potermi stringere tra le braccia e accarezzarmi. 

Fu Marco, tuttavia, a rompere il ghiaccio. «Ciao micino!» disse. Poi si alzò, spostò la sedia, si chinò e cercò di avvicinarsi piano come per catturarmi. 

Io però preferii non farmi toccare e scappai via di corsa scivolando sul pavimento. Finii sotto il tavolo della cucina con le zampe in aria come un babbeo. 

Risero di nuovo. 

Mi rizzai e li guardai fiero. 

Nel frattempo, Lisa mise del latte e del prosciutto cotto in una grande ciotola rossa con due scomparti. Da una parte c’era il latte fresco, dall’altra il prosciutto. 

Era una ciotola più grande del sottoscritto. L’ideale per annegarci se ci fossi caduto dentro. Aspettai che si ritrasse, prima di farmi sotto. Bevvi il latte, poi mangiai un po’ di prosciutto. Era sminuzzato e non faticai a morderlo. Ne mangiai parecchio finché avvertii di avere il ventre pieno. 

Più tardi andai nella cassetta che avevano piazzato nell’anticamera. Rovistai tra la sabbia con le zampe anteriori e feci i miei bisogni. Eseguii tutta l’operazione come un automa e in maniera naturale, come se lo sapessi fare da sempre. 

Loro continuavano a sorridere e a guardarmi. 

Mi è piaciuta sin da subito la gente che sorride: è la cosa più bella che possono offrire gli esseri umani. Lo dico sul serio. Cercate di capirmi non parlo della gente che sorride per stoltezza o solo per farsi vedere e mettersi in posa. Non fraintendetemi. Sorridere per forza è stupido. Non sono uno scemo che crede alle favole. Adoro i sorrisi in tempo reale, se così si può dire. Quei visi felici e sereni e spontanei di chi sta bene in quel momento e non sta pensando a quello che c’è stato prima e a quello che verrà dopo. 

Lisa è bellissima quando sorride. Ha uno di quei sorrisi, per la luminosità che irradia il suo volto, che fa innamorare gli uomini. 

Appresi in seguito che piaceva a tutti i maschi che frequentava e conosceva. Alcuni di loro erano cotti da far paura. 

Lo stesso, dopotutto, vale per me. Non mi sottraggo a questa regola, benché sia un gatto. Un po’ mi sono innamorato subito di lei, nel momento in cui è entrata a prendermi da sciocca in quella misteriosa stanza da bagno milanese. Magari, un giorno, avrei provato lo stesso sentimento per una gattina. Magari, eh! 

Mi pulii con la lingua come mi aveva insegnato a fare mia madre e tornai in cucina a mangiare. Bevvi tutto il latte e mangiai di nuovo un po’ di prosciutto. Ne lasciai pochissimo nella ciotola. 

Una volta sazio, mi venne voglia di correre e di giocare nella penombra del corridoio. Loro mi seguirono come se volessero partecipare e per me fu ancora più divertente. Ne combinai di cotte e di crude. Mi mettevo di traverso, rizzavo i peli della schiena, inventavo assalti e ingrossavo la coda muovendola all’insù cercando di intimidirli. Fissavo Marco e Lisa cercando di spaventarli con lo sguardo. 

Adesso non credo che loro provassero davvero terrore, difficile da credere, ma stavano al gioco: scappavano, urlavano e fingevano di avere paura e questi particolari mi rendevano felice. Mi ribaltai una mezza dozzina di volte e percorsi il corridoio dell’appartamento in lungo e in largo cercando di non farmi mai prendere, finché, spossato, andai a riposarmi sopra un paio di pattine sistemate ai piedi di un armadio a muro nell’atrio. 

Lisa, questa volta, mi afferrò con delicatezza, mi trasportò in salotto e mi posò sopra una copertina di lana cucita a mano che aveva steso sul divano in pelle posto in mezzo alle due poltrone. Con il tempo sarebbe diventato uno dei miei posti preferiti. 

La mattina era volata e mi assopii di colpo. 


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"Grazie per la lettura"

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