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Nino di Mei |
Dipingeva solo. Non poteva esserci gente in casa attorno. Dipingeva la domenica pomeriggio e la sera dopo cena. Tutte le sere della settimana per tutti gli anni a venire.
Voleva essere solo. Non poteva esserci rumore intorno. Si metteva all'opera subito dopo aver portato i bambini a dormire.
Li accompagnava in camera da letto, gli faceva recitare le preghiere della sera, aspettava che il più piccolo si mettesse sotto le coperte e che gli dicesse di spegnere la luce e poi tornava in soggiorno che adesso diventava il suo atelier.
Cercava una luce buona e poi dava spazio ai colori. Ai suoi pennelli, alle sue spatole, alle sue tele e alle sue tavolozze.
Dipingeva come Hemingway scriveva. Cercava di essere oggettivo con la sua arte e dipingeva quello che vedeva anche se le facce e i volti dei suoi personaggi potevano essere chiunque.
Per lui dovevano soltanto suscitare emozioni.
Le case e le montagne erano quelle familiari, precise e immortali e segnate dal tempo. Come erano familiari e immortali nella loro vividezza gli animali che ogni tanto finivano nelle sue tele e nei suoi disegni.
A volte si metteva davanti alla finestra e dipingeva quello che vedeva fuori in strada. A volte ritraeva l'inverno. In altri momenti erano gli sterminati tramonti porpora estivi. Ogni tanto ci finiva qualche arcobaleno.
La sua arte sapeva di pioggia e di sole.
Pensava a Cézanne e alla sua difficoltà come artista. Pensava a Van Gogh e ai suoi drammi come uomo. Pensava agli impressionisti. Pensava a quando sarebbe potuto uscire e dipingere in en plein air.
Pensava al bene nel mondo.
Pensava al male nel mondo.
Pensava all'amore che metteva in un quadro.
E intanto dipingeva.
Nelle sua pittura poteva finirci di tutto. C'erano anni di scuola per corrispondenza e c'era l'esaltazione che veniva a galla ogni qualvolta un suo insegnante aveva trovato della qualità in un suo lavoro.
Pensava a Claude Monet. Pensava a Degas. Pensava alla luce di Edward Hopper. In soggiorno con l’odore di acqua ragia e trementina e dei colori a olio. Pensava a Renoir.
Forse un giorno avrebbe avuto una stanza tutta per sé. Magari un atelier come Picasso. Ma dipingeva da solo con il suo stare al mondo. E i quadri prendevano vita.
Forse, un giorno, i suoi figli avrebbero pensato a lui.
Vi voglio bene.
Grazie.
Al di là della forza nelle tue parole, si percepisce quali fossero le speranze e i sogni dell'artista, nonché l'amore, l'orgoglio e l'impegno con cui hai egregiamente descritto tutto questo. Molto sentito, complimenti!
RispondiEliminaGrazie davvero. Un abbraccio!
EliminaMa la genialità è una dote che si tramanda?
RispondiEliminaBuona giornata!
L.
ahhahah, Buona giornata!
EliminaBellissimo racconto.
RispondiEliminaE direi che i figli ci hanno pensato, no?
In ogni caso, amo molto questi quadri: semplici, quotidiani, a volte rurali a volte montani.
Mi piacciono perché sono quelle opere che si vedono in luoghi per me magici... :)
Moz-
Grazie Moz- per tutto!
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