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Nino di Mei |
Mio padre posò la forchetta, spostò il piatto con gli spaghetti, si pulì la bocca con un tovagliolo e si alzò.
La nonna andò verso la finestra aperta. I raggi del sole le illuminarono le mani all'improvviso. Erano pizzicate e sanguinanti. Sembravano quelle di Gesù Cristo in croce.
La nonna disse che era la terza volta di fila che il gallo l’aggrediva mentre distribuiva il mangime nel pollaio. Si era stancata adesso. Quel gallo aveva fatto il suo tempo: andava strozzato e messo in forno.
Papà assentì. Non discuteva mai con la nonna. O almeno io non li avevo mai visti fare questioni. Entrambi erano cresciuti in un periodo in cui non c’era nulla da discutere e ognuno conosceva bene quale fosse il proprio ruolo. Se la nonna voleva la morte di quel gallo ci doveva essere un motivo ben preciso, certo non solo per riempire la pancia.
Mio padre però non ne aveva mai ucciso uno. Li aveva dipinti in varie occasioni e più di una volta lo avevo sentito dire che la cresta e i bargigli dei galli fossero dei buoni soggetti per i pittori. Soggetti perfetti per imparare a dipingere. Più ancora dei tramonti, delle nature morte e delle figure di nudo. Nel colore dei bargigli e della cresta dei galli c’era lo stesso colore del sangue. Era il motivo per cui erano così combattivi in certi momenti della loro vita.
Papà osservò le mani della nonna e le domandò se avesse disinfettato i graffi e le beccate. Poi sorrise. In vita sua non era mai stato costretto a uccidere un gallo ma le avrebbe obbedito. Le disse che la sera stessa, una volta tornato dalla bottega, sarebbe andato al pollaio e avrebbe staccato la testa a quel pennuto. L'avrebbe spennato nell'acqua bollente e poi ci avrebbe fatto il ripieno con i biscotti amaretti e la pancetta e le uova e altri ingredienti e avremmo fatto festa la domenica successiva.
Bastò questo per calmare la nonna. Non ebbe bisogno di altre conferme. Sapeva che mio padre avrebbe mantenuto la parola. Si scusò per averci disturbato a pranzo e si avviò verso la porta d’ingresso.
Papà mi pregò di accompagnarla sino a casa, ma lei non volle. Mi bloccò sull’uscio. Senza farsi notare, tolse dalle tasche delle caramelle di zucchero matricale e me le porse, ma disse di mangiarle solo dopo aver finito il pranzo.
Vi voglio bene.
Grazie.
Descrizione perfetta Ferruccio, hai messo su carta una scena viva,viva a tal punto che già dalla prima parola avevo la sensazione di essere presente anche io, una scena reale che cattura il lettore immediatamente ...bravo,non è facile riuscire a portare il lettore all'interno del racconto,tu ci sei riuscito perfettamente!
RispondiEliminaGrazie Marina!
EliminaCosì bello da chiedersi se è un racconto o realtà. Se effettivamente tu abbia vissuto questo avvenimento.
RispondiEliminaCi hai fatto assistere alla scena, come se fossimo seduti lì, in quella cucina, a quel tavolo.
grande!
Troppo buona Pat, grazie!
EliminaUn esempio di vita contadina riportato con grazia e bello stile. Le caramelle emblema della mia infanzia sono le fantastiche mou di Paperino :-)
RispondiEliminaRicordo anche quelle
Eliminabellissima e intensa storia! ciao, buona settimana!
RispondiEliminaA volte mi chiedo se la nostra vita non sia un reale racconto più che una vita illusoria...
RispondiEliminaL.
Dipende da come si affronta!
EliminaSpero non come Hemingway!!
RispondiEliminaLa cosa che di lui mi affascinava era il pensiero che aveva sulla "sincerità"... La vedeva come una sorta di comandamento morale...
Mi scusi per l'incoerenza al post!
L.
Stupendo. Davvero.
RispondiEliminaScrivi molto bene.
Moz-
grazie Moz-
EliminaOttimo... davvero!
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