mercoledì 7 settembre 2016

La sorte singolare del signor Rossi: racconto

L'anno scorso ho pubblicato sul blog questo racconto, La sorte singolare del signor Rossi

Ora lo ripropongo, dopo aver eliminato qualche avverbio e qualche aggettivo di troppo, senza scomodi link perché mi sembra molto attuale. 

Lo spunto mi fu dato dalla lettura di una fatto di cronaca che parlava di un signore rimasto bloccato in ascensore per tutto il weekend

La dimensione grottesca non deve ingannare, ormai viviamo in un periodo dove tutto è in discussione. Sacro e profano vengono mischiati in base alle esigenze... ma leggetelo e poi mi dite: 


La prima volta che usò l’ascensore della ditta ci restò rinchiuso come uno sgombro in una scatola d’olio d’oliva. Entrò, pigiò un pulsante per salire e il marchingegno si bloccò dopo un paio di sobbalzi. 

Il signor Rossi non si lasciò intimorire. Premette il pulsante d’allarme, poi, dopo aver compreso che sino all’alba dell’indomani non sarebbe stato liberato, s’impegnò a non perdere la calma e si limitò a cercare di dormire in terra, nella penombra creata dalla luce d’emergenza, per il resto della notte. 

Appena fu giorno, fece la pipì in un angolo della cabina. Quindi si sforzò di ritrarsi nello specchietto di quel buco artificiale e si stirò le ossa, alla maniera di un gatto domestico, tanto per non farsi trovare stravolto e anchilosato. Alla fine si allontanò dalla pozza di piscio e si mise nell’attesa di qualcuno che sbloccasse la situazione e che lo levasse finalmente da quella specie di tugurio. 
Non dovette attendere a lungo. 

Di colpo, l’ascensore cominciò a scendere lentamente nella tromba del palazzo. Si arrestò qualche piano più in basso e la porta si spalancò. Il signor Rossi mise fuori la testa, ma ciò che vide lo lasciò senza fiato. 

Sul pianerottolo, davanti alla porta d’uscita, ci trovò due medici. Sembravano appena usciti da una sala operatoria e indossavano ancora il consueto camice verde imbrattato di sangue fresco. Impregnavano l’area con un forte e penetrante odore di disinfettante. I due chirurghi avevano una cuffia sulla testa e il viso nascosto dietro una mascherina bianca e sottile: i loro occhi si scorgevano a malapena. 

Uno dei due, in una mano, portava una bacinella di gomma contenente un qualcosa che assomigliava a un cuore pulsante; mentre l’altro bestemmiava a raffica, agitando una forbicina come se volesse evirare il signor Rossi per una piccola scia di urina lasciata nel posto sbagliato. 

Il signor Rossi non riuscì a levargli gli occhi di dosso. Ancora non si era ripreso e domandarsi dove fosse finito gli pareva del tutto fuori luogo; dopo la notte che aveva trascorso si aspettava degli operai manutentori e un piccolo gesto d’incoraggiamento più che una situazione da manicomio. Trovarsi, tra i piedi, dei medici ancora sotto stress per un intervento andato male e, sopratutto, sentirne uno bestemmiare come un ubriaco, non era quello che si sarebbe atteso. 

Ora, non riuscendo a scovare una spiegazione sensata a ciò che stava succedendo, pensò di porre delle obiezioni. 

Fu anticipato da uno dei medici che gli chiese: «Perché non porti una maschera?» 

Che maschera?» domandò il signor Rossi. 

«Non sai che è esploso il carnevale?» si sentì ribattere. «Non ci riconosci?» 

Il signor Rossi fece una smorfia e li osservò perplesso. Prima uno e poi l’altro. Credeva di non aver visto nessuno dei due. Non immaginava proprio da dove provenissero personaggi del genere. Inoltre, non capiva cosa volessero affermare con questa strana faccenda del carnevale. Lui mal tollerava una settimana grassa all’anno; figurarsi se poteva prendere in considerazione una gazzarra fuori stagione come prediceva un medico chirurgo. 

«Trovati una maschera, se non vuoi lasciarci il cuore!» suggerì quello con la bacinella in mano. 

«Cosa?» 

«Chi non porta una maschera, sarà eliminato!» si sentì dire. 

Il signor Rossi impallidì. Scosse la testa. Più che mai, ora, si sarebbe aspettato coccole e scuse dopo la notte trascorsa. Invece: “Chi non porta una maschera, sarà eliminato!” 

«Scappa!» si sentì consigliare. 

Scappare? Lì c’era il suo ambiente di lavoro. Lì, negli uffici di quel palazzo, c’era metà della sua vita. Al piano di sotto, c’erano la sua scrivania lucida, il suo cellulare alla moda e un bel po’ di altre cose importanti. 

«Vattene!» si sentì dire. «Non vorrai finire squartato!» 

Il signor Rossi imprecò e inveì senza farsi sentire. Era veramente sbalestrato: immaginava che così sarebbe potuta finire, perciò scelse di scendere le scale senza farsi supplicare. 

Mentre scendeva, rifletté su ciò che aveva appena visto. Supponeva che costoro fossero alcuni dei soliti operai addetti alla manutenzione mensile dell’ascensore. Poteva sbagliarsi, ma, se erano loro, li conosceva assai bene. Chissà cosa ci facevano sulle scale conciati così. Dovevano essere del tutto matti, pensò mentre scendeva le scale. 

Il vero manicomio si manifestò davanti ai suoi occhi appena giunse al piano terra. Il signor Rossi guardò prima a destra e poi a sinistra. Gli parve tutto allucinante! Sembrava il momento culminante del Carnevale di Rio. L’atrio era una bolgia di persone travestite in modo davvero stravagante. Alcune persone, mascherate da Zorro, giravano nei corridoi infilzando con un fioretto chi capitava; altre, invece, battagliavano tra loro con dei gladi e delle picche da legionari. 

Il signor Rossi si accorse anche di gente che fingeva di essere un Adamo in fuga dai serpenti; e poi vide strani animali, gente truccata da strumenti musicali, carri allegorici, facce che ritraevano vip televisivi e altro ancora. In particolare fu colpito da un paio di soggetti intenti a montare delle reti e dei trapezi da giocolieri al soffitto. L’emozione più grande la provò quando vide una figura spuntare in fondo al corridoio. Gli parve di vedere un dio scendere dall’Olimpo: doveva essere Giove o qualcosa di simile nella rappresentazione ed era portato, a spalla, su una portantina, da una sfilza di tizi simili a tanti schiavi antichi. 

Il signor Rossi lo squadrò per bene e ci restò di sale; dietro la folta barba bianca, pensò di riconoscere il suo principale. 
Ora sebbene fosse nascosto da un trucco plateale, sembrava mantenere il suo ruolo privilegiato come nella struttura dell’organigramma aziendale. 

Gli fu del tutto normale, dunque, dedurre che, dietro le altre maschere, ci fossero nascosti i suoi colleghi. 

D’altra parte anche l’azienda era truccata. Il corridoio era stato camuffato e sembrava quasi che nella notte ci fosse passato il fantasma di Picasso a lasciarci il segno. Le pareti erano state ridipinte in maniera astratta e i vecchi quadri appesi erano stati, alcuni, sostituiti da poster di donne nude, mentre i rimanenti erano stati usati come bersagli dalle frecce di un gruppo di guerra Sioux che stava montando un tepee davanti all’uscita del palazzo. Poi c’erano costumi che offrivano frittelle e salamelle alla griglia. C’erano bautte veneziane che gettavano stelle filanti e coriandoli dai soppalchi; e c’era gente, travestita da donna, che dava a intendere di prostituirsi a chi offriva caramelle e torrone. 

Come è logico, il signor Rossi cercò di riconoscere qualche collega e si mischiò alla folla. Osservò quelle strane e bizzarre creature nella calca. Infine bloccò un tipo con un perizoma da leopardo legato in vita. Era il più vicino. 

«Cosa succede?» gli chiese. 

Tutto accadde in un attimo. Il tipo urlò e di botto il trambusto carnevalesco cessò. Fu come se fosse sparito il sonoro in un cinema e subito dopo, il signor Rossi, in mezzo al silenzio, si trovò sotto lo sguardo allucinato e perso delle maschere. Adesso capì di essere nei guai veramente. Non si trattava di un semplice scherzo. Comprese che non sarebbe mai e poi mai riuscito a spiegarsi. 
C’era una tensione assolutamente fuori dalla norma in quel corridoio. Sembrava quasi che le maschere fossero sotto l’effetto di qualche droga: erano troppo esaltate per essere delle semplici persone. 

Il silenzio non si protrasse per molto tempo. A un gesto preciso di quella specie di Giove scoppiò il finimondo e il signor Rossi non ebbe neanche il tempo di riflettere e nel giro di pochi secondi tutti i presenti nel corridoio se la presero con lui. I più vicini iniziarono a colpirlo con quello che avevano in mano: bastoni, cuscini, clave di plastica, cose del genere. Nulla di effettivamente letale a dirla tutta: quasi una faccenda comica, più che tragica. 

Quando, però, vicino al suo orecchio destro strisciò il proiettile sparato dalla Colt di un tale vestito da cowboy, il signor Rossi non ebbe altro impulso che darsi alla fuga lasciando in ufficio tutte le sue cose. 

Si buttò verso l’uscita a testa bassa e a testa bassa eluse la stretta degli indiani accampati, ma non poté evitare di cozzare contro la pancia tonda e molle di una cicciona vestita a chiffon come la Mumy nera di “Via col vento”. La travolse e la scaraventò a terra rovinandole il vestito. 

Poi, prima che la donna potesse risollevarsi sulle proprie gambe, il signor Rossi la colpì con un violento e secco calcio in faccia e la maschera si staccò di netto neanche fosse un cerotto. Non si trattava di Mumy. Non si trattava neppure di una vera donna. Dietro quel costume, c’era un uomo addetto alla sicurezza della ditta. 

L’uomo ragliò come un somaro e da terra allungò una mano per bloccare il piede sinistro del signor Rossi, ma lui, con un guizzo, degno di un camoscio, evitò la stretta, sospinse con una spalla la porta a vetri davanti all’ingresso e uscì nel cortile sotto il sole del mattino. 

Appena fuori, cercò di inquadrare una via di fuga. Ora, non avendo a disposizione le chiavi delle macchina, pensò a una soluzione alternativa. Pensò di rubare un motorino o una bicicletta dapprima; tuttavia, notando l’incredibile calca di mezzi meccanici presenti nel posteggio, comprese che l’unica possibilità di fuga erano le sue gambe. Pensò di scappare attraverso il portone principale dell’azienda, ma pure questo era troppo sorvegliato e, dunque, non poté fare altro che passare tra i mezzi in sosta e spingersi sino al muro di cinta posteriore. Si issò sul muro e si lasciò cadere dall’altra parte a corpo morto. 

Non c’erano sporgenze a cui attaccarsi e il signor Rossi scivolò lungo la parete obliqua per quattro metri come un sacco di patate. Si sfregò prima il mento e poi il naso. 

Una volta a terra non ebbe neanche il tempo di guardare verso l’alto per spiare se qualcuno lo aveva seguito. Si rizzò in piedi e scappò tra i palazzi e i capannoni della zona industriale. 
Riuscì a dileguarsi un poco, ma la tensione e l’adrenalina lo facevano sentire assai strano: era come se fosse finito in un mondo popolato da incubi. 

Non era in un mondo di incubi, le grida e le urla che udiva alle sue spalle erano reali e si rese conto che doveva assolutamente trovare una soluzione a quello che stava vivendo. 

A tutta prima pensò di trovarsi una maschera per cavarsela. Gli pareva la cosa più elementare da fare. Una volta mascherato  tutto sarebbe finito. Lui, però, non credeva di essere impazzito. Passare la notte chiuso in ascensore, in effetti, lo aveva stravolto, ma sapeva di non essere ammattito. 

Era sempre stato un uomo sobrio e ci voleva bel altro per sconvolgerlo. Una situazione simile non poteva tollerarla. Non era questo il mondo che voleva. Perciò puntò verso la ferrovia. Da quelle parti avrebbe trovato un riparo. Aveva bisogno di un luogo dove poter riposare e riflettere per qualche istante, senza avere il fiato di qualcuno sul collo. Adesso, l’area che rasentava la linea ferroviaria, verso la periferia della città, sembrava l’ideale. L’aveva vista decine di volte passando in treno. Sul principio, c’era da superare una vasta area incolta e allo scoperto; poi, però, la vegetazione avrebbe preso il sopravvento e una volta nella boscaglia sarebbe stato in salvo. 

Non fu per nulla facile. Prima che potesse oltrepassare la cinta che impediva l’accesso alla linea dei binari, fu scoperto da una pattuglia di soggetti mascherati da soldati della grande guerra in ricognizione. Due di loro, con in testa il tipico elmetto appuntito dei fanti tedeschi, erano armati con delle balestre che lanciavano elastici del tutto innocui; ma il sergente che li comandava, una bestia di due metri travestita da Ardito degli alpini, aveva in mano un fucile da caccia per elefanti e i colpi che ne uscirono erano veri come i buchi che fecero sulla cinta di protezione. Poi, dopo i fanti, fu la volta della cavalleria crociata a creargli tormento. Erano solo una decina di cavalieri e se li vide arrivare addosso al galoppo. Lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli sussultò sul terreno come un terremoto prima che una lancia gli sfiorasse una gamba. In seguito, toccò a una schiera di finti giannizzeri ottomani. Tuttavia, il vero spettacolo si manifestò quando, in cielo, apparve un elicottero rosso. 

L’elicottero ronzò sulla sua testa per un buon quarto d’ora; volteggiò sul suo cranio come una vespa sul polline di un fiore e lui, solo sdraiandosi nel sottobosco, riuscì a non farsi scovare. Restò nascosto, lì, nell’erba, teso come le corde di un violino, a lungo senza pensare, quasi inebetito, finché – dopo aver visto passare un treno merci carico di ogni ben di Dio che diffondeva ad alto volume “What a Wonderful World” cantata da Louis Armstrong – il caos si esaurì di colpo. Il signor Rossi poté trovarsi un riparo più adatto; tuttavia la stanchezza, lo stress e la paura di una giornata assurda fecero il resto e si addormentò in terra. 

Il signor Rossi si svegliò infastidito dai boati dei fuochi artificiale che esplodevano nel cielo sopra il lago solo nel tardo pomeriggio. Era ancora giorno e gli parve molto strano. Per un attimo si illuse di avere solo sognato; ma dapprima la fame, poi il dolore al mento lo fecero tornare alla realtà. Malgrado i suoi sforzi, non era in grado di dare una spiegazione a ciò che stava accadendo. 

Adesso molte volte si era sentito a disagio con il suo comportamento; spesso con i colleghi aveva avuto dei contrasti e le sue scelte non sempre erano state fortunate. Più volte avrebbe voluto cambiare vita. Forse avrebbe desiderato essere un po’ meno vigliacco, ma per quale motivo la sorte avrebbe dovuto accanirsi in un modo simile nei suoi confronti? Prima di finire nell’ascensore non aveva ravvisato nulla di anormale e allora che significato aveva una farsa simile? Forse era solo colpa sua. Magari era un effetto del suo pessimismo. Era una situazione che sia era creato lui stesso nella mente. Se ci pensava bene, d’altro canto, era lui il primo a essere mascherato e a fingere ogni secondo e ogni minuto e ogni ora e ogni giorno della sua vita. 

La ferita al mento, comunque, ora, gli doleva davvero. Era un dolore eccessivo e sapeva che doveva metterci le mani. Sulle prime pensò solo di pulirla con un poco d’acqua fredda, ma si rese conto che gli occorreva qualche disinfettante se non voleva correre rischi. C’era il pericolo di prendersi qualche infezione se non avesse cercato un rimedio.  Si trattava di un guaio e non di poco conto perché forse significava ritornare in città e ritornare in città voleva dire incontrare di nuovo quella specie di farsa. 

La fame gli aguzzò l’ingegno. Non ci mise molto a trovare una soluzione. Si strappò i vestiti di dosso e, con una manica delle camicia insanguinata, si fasciò la testa. 

Era un camuffamento provvisorio e forse neanche troppo intelligente; ma, per il momento, sarebbe bastato. Poi salì sul terrapieno di rialzo dei binari e si avviò verso la città. 

Ci giunse prima che tramontasse il sole e si mosse con cautela per evitare guai. Lasciò la linea ferroviaria coi binari investiti dagli ultimi raggi solari e attraversò un paio di stradine isolate. Poi sbucò sul piazzale del sagrato di fronte alla cattedrale della città. Si guardò attorno e capì che i problemi non erano finiti. 

Ormai quella specie di carnevale aveva contagiato tutti. La gente che affollava la piazza sembrava immersa in un’orgia deleteria e senza speranza. Come una danza a un totem fatuo. E il signor Rossi pensò di essere finito in un girone dantesco. C’era chi ballava come un selvaggio e c’era chi faceva strani comizi. C’era chi predicava l’avvento di un nuovo messia e c’era chi pregava in ginocchio. C’era anche chi bestemmiava e chi cantava in dialetto bevendo boccali di birra e bricchi di vino caldo. Non mancava neanche chi si divertiva a sparare ai piccioni della piazza e ai lampioni comunali. 

Tuttavia non era solo il chiasso di tutta quella gente mascherata a sconvolgerlo: il vero problema era il fetore dei cadaveri. Erano disseminati dappertutto. 

Il più delle volte, erano lì, semplicemente sui marciapiedi, riversi in posizioni innaturali, abbandonati a sé stessi come se fossero solo del cibo destinato a qualche cane randagio. Oppure, erano ammucchiati sopra i tombini delle fogne. Ma ce n’erano, diversi, vestiti a festa, che penzolavano, dai balconi e dai terrazzi delle abitazioni vicine, con la lingua fuori come tanti gonfaloni di vittoria. 

Era davvero una situazione raccapricciante e complice il nauseante lezzo presente nell’aria, il signor Rossi si sentì venir meno. Non poté trattenere il vomito e vomitò lì dov’era. Si sentiva quasi ridicolo e si vergognava. Finché, dopo un poco, esausto e con le lacrime agli occhi per lo sforzo, si accasciò sul marciapiede. 

Nel medesimo istante, sulla piazza arrivò un camion con una balena trainata a rimorchio. La balena era grande come due pullman legati assieme e aveva sul dorso, al posto degli arpioni, una serie di banderillas colorate in uso tra i toreri: lasciava una scia di sangue e di grasso sulla strada. Il Leviatano doveva essere il pasto principale della serata perché, appena fu scaricato dal camion, una schiera di palloncini rosa fu rilasciata in cielo e una banda iniziò a suonare. 

Furono i segnali che invitarono la folla a radunarsi. Giungeva da tutti i vicoli portando piatti e posate. A volte in fila indiana, ma spesso raggruppata in una processione di sagome sempre più allucinate. Tuttavia con la folla mascherata e con l’odore dei morti si unì, pure, il puzzo di pesce e di salsedine marina e per il signor Rossi fu naturale rigettare di nuovo. Questa volta, però, lo fece con più energia e si sentì svuotare. Poi, quando la disperazione lo stava prostrando, sentì qualcosa toccare una sua spalla. 

Il signor Rossi alzò gli occhi in maniera peristaltica e davanti vide una suora. 

«Che succede tesoro?» si sentì chiedere. 

Il signor Rossi arrossì e la guardò. Non credeva ai suoi occhi. La suora aveva un viso bellissimo e le labbra tinte di un rosso violento. Era vestita di bianco. Doveva essere l’ennesima maschera per via della calze a rete e per i tacchi numero dodici che portava ai piedi, però sembrava socievole. 

«La mia auto…» le disse il signor Rossi senza pensare. 

«La tua auto cosa?» chiese la suora. 

«Ho avuto un incidente.» 

«Sei ferito?» 

Il signor Rossi alzò le spalle. 

«Non puoi restare qui» consigliò la suora. «Non è un luogo sicuro!» 

«Dove mi vuoi portare?» 

«Non avere paura!» 

Il signor Rossi si sentì molto strano. Acconsentì. 

La suora lo prese per mano come un bambino. Forse credeva al suo camuffamento o forse era buona. Si avviò, tenendolo per mano, verso un lato della piazza. «Hai fame?» gli chiese.  

Il signor Rossi sorrise. Non capiva cosa volesse quella strana figura religiosa, ma nello stesso tempo si sentiva bene. Era piacevole avere qualcuno che si interessasse a lui, dopo tutto quel finimondo. 

«Hai fame?» chiese di nuovo la suora.

«Non mangio da ieri» rispose. 

«Ancora un po’ di pazienza» disse la suora. 

Il signor Rossi non aveva fretta. Si lasciò condurre per mano. 

La suora era  molto bella. Sperava solo che non lo lasciasse e che non ci fosse ancora qualcosa di bizzarro nell’aria. 

La finta monaca parve entrare nella parte e non lo deluse. Non lo lasciò un istante e non permise alle altre maschere presenti sulla piazza di avvicinarsi. 

Condusse il signor Rossi verso la cattedrale bisbigliando un rosario del tutto inconsueto. Salirono gli scalini davanti all’entrata della chiesa, quindi sospinsero la pesante porta. 

L’interno era vuoto e nella penombra. C’era solo una lunga fila di ceri accessi ai lati della navata che dal fondo della chiesa portava verso l’altare e un forte odore d’incenso. 

«Qui sarai al sicuro, non ci cercherà nessuno» sussurrò la suora e lo invitò a sedersi su uno dei massicci banconi vicini al battistero. «Recita una preghiera nel frattempo. Ne conosci qualcheduna? Io vado a prenderti qualcosa da mangiare.» 

Il signor Rossi annuì. Osservò la suora salire silenziosa la navata centrale nell’alone dei ceri. La vide arrivare di fronte all’altare. La vide inginocchiarsi e gli sembrò quasi di vederla fare il segno della croce. Poi la osservò dirigersi verso una porta laterale e pensò che si trattasse della Sacrestia. Non gli tolse gli occhi dosso e quando la vide scomparire del tutto oltre le porta finalmente si rilassò. Pensò che forse era finita. In una chiesa era al sicuro. Nessuna maschera avrebbe potuto infastidirlo lì dentro. Magari avrebbe pregato un poco e quella mascherata si sarebbe dissolta. Era il momento di credere in qualcosa di potente. Si inginocchiò sul bancone dove era seduto. Non lo faceva da quando era ragazzino. Si fece il segno della croce, poi socchiuse gli occhi nella penombra. 

Ripensò alla giornata balorda che aveva trascorso con gli occhi chiusi. Ripensò ai suoi colleghi. Ripensò alla suora che lo aveva condotto nella chiesa e rise di sé stesso. Alla fine iniziò a pregare recitando quel poco che ricordava. 

Contemporaneamente nella chiesa si diffuse il coro di voci bianche de In Paradisum di Fauré e il signor Rossi si sentì invadere dall’emozione. Riaprì gli occhi mentre nella chiesa si accendevano le luci. Vide la religiosa uscire dalla porta della sacrestia con del vino santo e del pane sopra un vassoio. 

Il signor Rossi unì le mani in segno di ringraziamento e proprio nello stesso instante udì una risata agghiacciante. Proveniva dall’altare. 

Il signor Rossi gli rivolse un’occhiata proprio mentre si accendeva un lume sopra il pulpito. L’alone di luce rischiarò come un’alba la chiesa. Ciò che vide gli risucchiò il respiro in gola. Osservò con precisione per essere sicuro. 

Non si sbagliava: il ghigno dell’uomo sulla croce posta sull’altare non era quello di un martire. 

Vi voglio bene. 

Grazie.


22 commenti:

  1. Chi non indossa una maschera sarà eliminato!
    Più attuale di così! :-D

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  2. Persi e dispersi in un mondo di falsità e follia. Un racconto surreale eppur vero. Ed è in quel ghigno sulla croce che rimane aperta ogni analisi e ogni immedesimazione o illusa speranza. Un racconto "lucido" e pregno di riflessioni fra contraddizioni e consapevolezze del vivere. Uno splendido racconto! Grazie Ferruccio! Silvia Calzolari

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    1. Mi fa piacere enormemente quando il significato di un racconto viene colto

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  3. Oh Ferru... ammazza! Mi è piaciuto davvero tanto :)
    Ottimo modo di iniziare la giornata!

    Dovresti proporre tuoi racconti più spesso però ;)

    CervelloBacato

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    1. Mi fa davvero piacere Davide. Ho in mente di pubblicare una raccolta cartacea!

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  4. Già sai! :D Davvero bello e pieno di suggestioni, ribadisco ^^

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  5. Posso dire che è di una bellezza inquietante?Mi ha "catturato"sin dalle prime parole questo tuo racconto,sei riuscito a descrivere il caos di questa nostra società presentandola sotto forma di un carnevale dove ciascuno indossa una maschera, può essere quella di Zorro,di un indiano,di un pagliaccio ma i contorni sono sempre gli stessi: la falsità! Complimenti ottimo lavoro ...mi piacerebbe però che tu pubblicassi questa raccolta di racconti su carta 😉

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  6. Surreale e ossessionante,direi. .però, come dici tu, attualissimo. O indossi una maschera o sei fuori, oggigiorno.
    Maschera quindi falsità. Niente è come dovrebbe essere.
    Bello davvero!

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    1. Grazie, mi fa piacere se riesco a raggiunge lo scopo per cui questo racconto è scritto!

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  7. Buongiorno

    Non ero a conoscenza di questo racconto ,colpa del fatto che non seguo un ordine preciso nemmeno nelle lettura di un blog, ( sarà per certi versi un difetto),voglio leggermelo con tutta calma ...

    Buona domenica

    L.

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    1. Sul post da dove arrivi, ce n'è linkato pure un altro sulla parola Milano
      Grazie

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  8. ....e pensare che avevo cercato in rete qualcosa di lei che mi permettesse di leggere racconti più lunghi...adesso lo sento come il colmarsi di un piccolo vuoto...grazie a lei per la segnalazione

    L.

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    1. Ho riletto il racconto,interessante,i commenti ed anche questa possibilità :Ho in mente di pubblicare una raccolta cartacea.

      Grazie ,adesso so come "cercare" attraverso il suo stesso blog!


      Buonaserata

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    2. Scusami,provo a darti del tu,cosa che spesso non mi riesce bene percependola come una mancanza di educazione verso qualcuno che non conosco!
      Ma è davvero così non ti conosco ?

      Mi hai detto che va bene così nei commenti basta quella L. a sapere chi sono ,sapendo che commento da tanti anni nel web!

      Ti prego se c'è qualcosa che vuoi chiedermi puoi ,per te sento solo del bene e difficilmente potrei non volertene ,ecco io sono questo ..una persona senza meta ,amo il viaggio e credo nella bellezza di molte cose.Il tuo blog ,il modo in cui gestisci è
      tra queste.

      Vorrei solo essere corretta e se vuoi che smetta anche solo di commentare,va bene,lo rispetto.A volte potrebbe esserci anche un valore dentro qualcosa che non necessariamente va spiegata o si comprende perfettamente.Ciao

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    3. Non devi smettere per niente... Mi fanno piacere i tuoi commenti e preferisco il tu :-)

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