domenica 4 maggio 2014

Sul sentiero di guerra con Domenico Rizzi

È sceso di nuovo sul sentiero di guerra Domenico Rizzi e quattro mesi dopo il nostro primo incontro virtuale, ho l’occasione di risentirlo per parlare delle sue due novità letterarie in uscita: "Fort Kearny 1866-68", un saggio storico della Collana Conflitti e Battaglie che uscirà per Edizioni Chillemi Roma e "I segreti di Dunfield", terzo ed ultimo romanzo della Trilogia di Dunfield in uscita per Edizioni Parallelo 45… 

Spero solo che le mie domande non lo facciano sentire legato a un palo di tortura: 


Ciao Domenico e bentornato sul mio blog. Due nuove fatiche letterarie in uscita a breve. Partiamo da Fort Kearny 1866-68, la ricostruzione di uno dei momenti storici più importanti della frontiera come la Guerra del capo Lakota, Nuvola Rossa contro gli avamposti costruiti a difesa della Pista Bozeman, cioè Fort Kearny e Fort Smith, oltre a quello di Fort Reno già esistente: in che modo ti sei documentato per un lavoro così prezioso? 

E’ stata una ricerca abbastanza lunga, perché non volevo ripetere certi luoghi comuni. Sono stato in contatto con la Wyoming Historical Society e con un ricercatore di Fort Kearny, dove mi recai anni fa. 

Oltre a ciò, possiedo una ricca raccolta di documenti su quel periodo, compreso un libro scritto da un Oglala Sioux di nome Eagle Man che conobbi a Holy Rosary Mission, nel South Dakota. 
Credo di avere fatto un buon lavoro, condotto con sufficiente obiettività. 


Chi sono John "Portugee" Phillips, Jim Bridger, Mangiafegato Johnson e Frances Courtney Grummond

Portugee Phillips, che era un cacciatore portoghese trentaquattrenne di nome Manuel Felipe Cardoso, si trovava a Fort Kearny quando i Sioux e i Cheyenne sterminarono gli 80 uomini del capitano Fetterman. 
Si offrì volontario per andare a chiedere aiuti a Fort Laramie, distante 236 miglia. Era il mese di dicembre e c’erano 25 gradi sottozero, ma lui non desistette. 
Prima di partire si recò da Frances Courtney, vedova del tenente Grummond e incinta di sei mesi e le confessò: “Vado a Fort Laramie per amor vostro. Se non dovessimo rivederci, ricordatevi di me!” Così scrisse Frances nel suo libro autobiografico che io possiedo in inglese. 
Portugee ce la fece nonostante l’impresa fosse quasi impossibile, ma quell’amore rimase soltanto platonico. Ecco, io ammiro questi personaggi, che fanno le cose perché hanno dei sentimenti, non per denaro, ambizioni di carriera o riconoscimenti. 

Lungo il tragitto, Phillips incontrò quel Mangiafegato Johnson che si era creato la fama di uccisore di indiani Crow. In realtà ne ammazzò una trentina per vendicare la moglie (una donna della tribù dei Testa Piatta) da loro massacrata, ma il fegato lo tolse ad uno solo. Quanto a Bridger, diede al colonnello Carrington – comandante di Fort Kearny – dei consigli preziosi, ma la lotta fra i due schieramenti era troppo impari. 
Una volta tanto, vinsero Nuvola Rossa, Cavallo Pazzo e i loro alleati Cheyenne. 

Io rifeci il percorso di Phillips, da Fort Kearny a Fort Laramie, ma a bordo di una confortevole automobile americana e con 40 gradi di calore, perché era la fine di luglio. L’impresa di quell’uomo rimane come una delle pagine più edificanti della storia del West perché, come gli disse Mangiafegato incontrandolo, “soltanto un pazzo o un Indiano si sarebbe messo in viaggio con quelle condizioni atmosferiche”. 


Nel tuo libro ci sono anche ufficiali, come per esempio il capitano James W. Powell, poco noti nei resoconti letterari più famosi ma che ebbero un’importanza notevole allora. Puoi dirci qualcosa in merito? 

Purtroppo è abitudine di troppi storici, anche americani, di riferirsi alle pubblicazioni precedenti su un argomento, senza approfondire certe tipologie. Di Powell si sa che respinse i Sioux infliggendo loro molte perdite nel Wagon Box Fight, grazie ai nuovi fucili Springfield-Allin in dotazione alla sua esigua truppa di una quarantina di uomini. In realtà fu un uomo dalla personalità molto più complessa ed io ho voluto scavare a fondo il personaggio perché sono tremendamente curioso…

Uno storico deve possedere 4 requisiti fondamentali: curiosità, costanza, metodo e anticonformismo, che significa non accettare passivamente le opinioni di altri, neppure quando siano largamente condivise. Nel corso delle mie ricerche di questi anni ho scoperto quante stupidaggini siano state scritte sia sugli Indiani che sull’esercito americano, inventandosi cifre inesistenti o altamente improbabili. Questo è stato fatto da gente che abbracciava a priori, prima ancora di condurre la ricerca, una determinata tesi. Così non si svela la storia: semmai si alimenta la leggenda. 


Le maggiori difficoltà che hai incontrato durante la scrittura del libro, qualche aneddoto? 

Praticamente nessuna, a parte la solita contraddittorietà e imprecisione che si trova nelle testimonianze degli Indiani. 
Se si prestasse fede a molti di loro – contro il loro stesso interesse – si dovrebbe concludere che in mezzo secolo di guerre contro i Bianchi tutte le tribù messe insieme non persero più di 200 uomini. 

I resoconti militari alzano la cifra di un bel po’, quantificando in circa 6.000 i Pellirosse caduti in 50 anni. Comunque, un’inezia e un numero sicuramente inferiore a quello causato dagli scontri fra tribù rivali nel medesimo lasso di tempo. Quanto alle esagerazioni di chi parla di “decine di migliaia” o di “milioni” di vittime della conquista del West, sarebbe meglio se si occupasse d’altro. 
La fantascienza sarebbe sicuramente un argomento più consono. 



Passiamo all’altro. “I segreti di Dunfield”, romanzo conclusivo della Trilogia di Dunfield, tratta invece tutt’altra cosa ed è ambientato in un periodo storico differente, le grandi pianure lasciano il posto alla costa orientale e a tematiche diverse come la stregoneria e la religione. 
Un’opera di fantasia ma anche in questo caso occorre possedere una notevole competenza della materia storica vero? 

Beh, lo dico senza menare eccessivo vanto, ma scrivere una trilogia come questa non è la stessa cosa che buttar fuori un romanzo ambientato in un salotto o sulle rive del lago in epoca moderna. Dico questo perché scrissi anch’io un romanzo del genere nel 2007, intitolato “SLASH. Grazie per questo amore”. 

Lo portai a termine in 11 giorni esatti, lavorando non più di 4 ore al giorno. 
Invece, soltanto per “Le streghe di Dunfield” ho dovuto compiere una ricerca di 1 anno, sulla Guerra di Re Guglielmo, sulle usanze dei Puritani del Massachussets, sulle tribù algonchine e irochesi che hanno una parte importante nel libro, sulla caccia alle streghe di Salem Village del 1690. Di quest’ultimo evento ho studiato anche i minimi particolari, per poter riprodurre l’episodio analogo che si trova nel mio libro. Tutto ciò, pur avendo una buona conoscenza dei Pellirosse, delle loro abitudini e della storia che li riguardò. 


Il personaggio a cui sei più affezionato di questa trilogia? 

Naturalmente il protagonista, Nathaniel Whitman, ma i miei personaggi li amo tutti indistintamente. Adoro la sua riottosa fidanzata Susannah Courtney, l’altera quanto fragile Hester Bligh, la piccola indiana Kaskawan del primo libro, l’irascibile e orgoglioso condottiero degli Abenaki, Opanango, l’ottuso comandante inglese Heywood che si intende più di donne che di strategia, il romantico ufficiale francese Louis De La Forge...
E aggiungo la domestica Liza Plummer, la “strega” Lucretia Flanders, la timida Greta Hendrick, l’intrigante Shingas, l’Indiano-Bianco. Ma forse la misteriosa protagonista, di cui non svelo l’identità, del secondo e terzo libro, è la mia preferita. Una donna dal temperamento forte, risoluta, che non si arrende davanti a niente…


Così erano molti personaggi femminili della Frontiera, come quella Hannah Dustin realmente esistita che si librò dalla prigionia sterminando un’intera banda di Abenaki su un’isola del fiume Contookuk. I miei personaggi sono una grande famiglia immaginaria che resterà sempre nel mio cuore. 


Ora che la trilogia è finita cosa ti è rimasto e cosa avresti voluto dare ai tuoi lettori? 

Innanzitutto mi è rimasta la soddisfazione di avere portato a termine quest’opera, navigando in un’epoca – il XVII secolo – in cui non mi tuffo spesso. 

Ai lettori penso di avere trasmesso molti stimoli, almeno per chi è disposto a riceverli: il fascino di un mondo poco conosciuto, il mistero che aleggia sopra le cose, gli errori umani, la capacità di perdonare, la fedeltà alle proprie idee e l’invito a non giudicare, perché gli eventi di cui siamo partecipi o spettatori racchiudono spesso altre verità a noi ignote…

Nel corso di una presentazione, un critico definì la mia opera – “Le streghe di Dunfield” - un po’manzoniana e un po’ salgariana, perché le difficoltà incontrate da Nathan nel conquistare il cuore di Susannah rimandano idealmente ai “Promessi sposi”, mentre le accanite lotte nella foresta hanno l’impronta del padre di Sandokan

L’ho considerato un grande complimento perché, pur non essendo certamente all’altezza di Manzoni o di Salgari, sono riuscito a carpire loro qualcosa. 


In confidenza quale periodo storico, trattato in questi due tuoi lavori, ti attrae di più? 

Si tratta di due contesti molto diversi e parecchio distanti fra loro nel tempo. Possiedono entrambi il loro fascino, tanto il Wyoming del 1866-68 in cui si affrontano personaggi storici quali Nuvola Rossa e il colonnello Carrington, quanto il Massachussets del 1692-95, dove lo scenario conflittuale è molto più variegato e complesso. 
Nella trilogia, oltre ai personaggi di mia creazione, ho tirato in ballo diverse figure storiche dell’epoca, fra cui l’ammiraglio William Phips, il conte di Frontenac, il governatore Stoughton, il teologo Cotton Mather, il capitano Benjamin Church, accennando anche a protagonisti di un passato più remoto, per esempio John Smith e Pocahontas


Domanda da curioso, quanti libri sulla storia americana possiedi? 

Non li ho mai contati, ma sono sicuramente più di 400. Oltre 50 in lingua inglese. 


E in rete, da esperto, a chi vuole approfondire la conoscenza della storia americana dove li consigli di navigare? 

Sebbene oggi esista Internet, consiglio di accostarsi alle pubblicazioni on line con una certa cautela. Purtroppo, fra esse vi sono una quantità infinita di “cazzate”, scritte da incompetenti o da provocatori. Resto dell’idea che la base debba essere una buona biblioteca cartacea e la ricerca debba partire sempre dai buoni libri. 


Esempio: vuoi conoscere il generale Custer? Leggiti le sue memorie “My Life on the Plains”, le 3 opere scritte da sua moglie Elizabeth Bacon e poi tutti i libri che parlano di lui, dando priorità alle parole dei testimoni che lo conobbero realmente. Esiste gente che crede di poter parlare di questo argomento per avere letto un articolo di giornale o avere visto tre o quattro film western. 

Un sito che consiglio a tutti, consultabile gratuitamente, è www.farwest.it, che sviluppa l’argomento del West nella sua globalità, fornendo aggiornamenti quasi quotidiani. 

In questi anni si è conquistato centinaia di migliaia di visitatori. 


Ultima domanda, un po’ strana: se avessero vinto gli Indiani? 

Come avrebbero potuto? Prima ancora che nascessero gli Stati Uniti, il loro numero non arrivava ad 1 milione di persone. Per la precisione, tutti gli studi (seri) condotti fino al Novecento ne indicano 840.000 nell’attuale territorio degli USA e circa 220.000 nel Canada. Ritengo impossibile mettere in discussione tali dati, frutto di riscontri ottenuti attraverso l’esame di decine di resoconti di missionari, militari, esploratori, viaggiatori (fra cui anche il nostro Giacomo C. Beltrami) e studiosi. 

Invece, al momento della dichiarazione d’indipendenza, gli Americani erano già circa 4 milioni. Trent’anni dopo, il loro numero era salito, per effetto dell’immigrazione, a 8 milioni. 

A parte ciò, le accese rivalità e le divisioni anche fra tribù dello stesso ceppo etnico-linguistico si rivelarono pressoché insuperabili. L’unico risultato ottenibile avrebbe potuto essere, come sperava il grande Tecumseh, la creazione di uno “Stato” interamente pellerossa a sud dei Grandi Laghi. 

Per questo riuscì a coalizzare diverse tribù, ma parecchie altre – come gran parte dei Creek - si astennero e alla fine molti alleati lo piantarono in asso ed anche frange della sua stessa tribù, gli Shawnee, gli si rivoltarono contro. 
Mi fa sorridere che Toro Seduto, Geronimo o Cavallo Pazzo vengano ritenuti così importanti dal punto di vista politico, mentre non lo furono affatto. Coraggiosi, tenaci, fieri difensori della loro cultura tribale, irriducibili lo furono certamente, ma senza mai coltivare un sogno che somigliasse lontanamente a quello di Tecumseh. Infatti, nessuno di loro pensò mai di unificare almeno le tribù etnicamente o linguisticamente affini. 


Come ho spiegato nel mio libro “Fort Kearny 1866-68”, quando Nuvola Rossa guidò i suoi contro le guarnigioni militari della Pista Bozeman, Toro Seduto si tenne fuori dalla mischia, lanciando velleitari assalti a qualche forte del North Dakota. Quando poi fronteggiò e sconfisse le truppe di Crook e Custer nel 1876, Nuvola Rossa ed altri capi come Coda Macchiata rimasero nelle riserve, senza dargli alcun appoggio. 
Si badi bene: l’intera “nazione” dei Lakota-Sioux contava a quell’epoca circa 14.000 persone, ma al Little Big Horn non ce n’erano che 7.000 o poco più. 

Come si poteva dunque vincere questa che è perfino azzardato definire una guerra? 

Comunque la tua ipotesi è molto suggestiva. Se avessero vinto gli Indiani, avrebbero sicuramente continuato a fare ciò che noi abbiamo fatto per secoli in Europa: mentre qui si combattevano aspramente Portoghesi e Spagnoli, Francesi e Inglesi, Tedeschi e Russi, in America sarebbero ripresi i conflitti fra Irochesi e Algonchini, Sioux e Pawnee, Comanche e Apache, oppure fra tribù appartenenti alla medesima suddivisione linguistica, come Uroni e Mohawk, Crow e Lakota-Sioux. Deprimente, lo so, ma è la storia.

7 commenti:

  1. Più che deprimente ma purtroppo è dall'origine del mondo che la Storia è segnata da orride guerre e violente contese per ottenere la supremazia su un dato territorio. E' difficile cambiare le sorti della nostra umanità in favore della pace. Azzarderei, impossibile.

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  2. Uno dei miei generi letterari preferiti quindi ti ringrazio per la segnalazione di questi 2 nuovi romanzi in uscita. Molto interessante l'intervista all'autore!

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  3. È davvero un'ottima analisi, complimenti! Sicuramente, tutto ciò che sappiamo sui loro conflitti interni è stato tramandato da padre in figlio, mentre le guerre combattute con i "visi pallidi" sono state descritte solo da questi ultimi, quindi, abbastanza di parte. Magari se gli indiani d'America avessero avuto una propria letteratura, o almeno una cultura scritta, forse oggi molte cose sarebbero assai più chiare. :-)

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  4. bellissima ed interessantissima l'intervista all'autore, non conoscevo questo autore e i suoi libri che trovo molto interessanti.

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