Bukowski lo scoprì da giovane quando, a stomaco vuoto e spesse volte ubriaco, andava a fare le sue letture nella biblioteca di Los Angeles, nel centro della città. Era il posto ideale per rifugiarsi quando non aveva niente da mangiare o da bere; o quando doveva fuggire dalla padrona di casa che lo inseguiva per i soldi dell’affitto. In biblioteca, almeno, in mezzo a una miriade di barboni addormentati sopra i libri, trovava un gabinetto in caso di bisogno.
Comunque, lì in quelle sale stracolme di libri, con il suo desiderio di diventare scrittore, Bukowsky leggeva tutto quello che poteva, anche se non era semplice trovare nel reparto narrativa qualcosa che avesse un rapporto diretto con la sua realtà e con quello a cui bramava.
Allora lesse libri dedicati alla religione e libri di filosofi tedeschi nelle sale apposite. Lesse libri di geologia e libri di matematica uguali alla religione nei reparti scientifici. Lesse libri di chirurgia e ne fu incuriosito, tanto che alcune tecniche operatorie gli diventarono familiari.
Ma non lesse nulla in grado di saziarlo per davvero.
Finché un giorno tornò nel reparto narrativa e dopo aver afferrato un libro capì di essere arrivato in porto. All’inizio ne lesse qualche pagina in piedi con curiosità e speranza, poi decise di portarlo al tavolo con l’aria di chi aveva scoperto l’oro nell’immondezzaio cittadino. La sera lo rilesse nella sua stanza.
Il libro era “Chiedi alla polvere” di Fante. Un libro che avrebbe esercitato su di lui, come ho già scritto all’inizio del post, una grande influenza.
Infatti, non molto tempo dopo, quando andò a vivere con una donna, l’immedesimazione con il racconto era quasi fisica.
La donna beveva come una spugna, a volte più di lui e l’ubriachezza spesso portava a liti furibonde durante le quali il buon Charles gridava: “Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini”.
Nessun commento:
Posta un commento
Questo blog ha i commenti in moderazione.
Info sulla Privacy